Live report di Zingiu
Di buona famiglia, i 65daysofstatic appartengono a una specie biologica piuttosto che a un genere musicale. Con i loro parenti stretti (Mogwai, Explosions in the sky, Caspian, This will destroy you) fanno parte di un insieme eterogeneo definito da molti “post-rock”. Etichetta che i diretti interessati spesso hanno mal tollerato, ma che in fondo ha fatto gioco alla causa della psichedelia strumentale. Il linguaggio è apparentemente semplice, un vocabolario di suoni d’ambiente, ritmi ossessivi e pad di chitarre distorte spalmate sullo sfondo: una lingua che non contempla l’uso della parola, non tanto per comunicare in modo alternativo, quanto per celebrare l’impossibilità di capirsi. Un po’ triste, direbbero i più distratti.
Tornano in Italia durante un lungo tour nei club di mezzo mondo, dopo aver sfornato il quinto album in studio. La loro discografia è ordinata, costante e da molti punti di vista coerente, tutte qualità che, in musica, fanno presto a diventare difetti. Salgono sul palco in silenzio, luci basse per la gioia dei fotografi, un timido accenno al pubblico e poi muri di feedback per cominciare.
Da subito la sensazione è quella di aprire un baule in soffitta e ritrovare un vecchio gioco. Uno sguardo nostalgico, un attimo di esitazione, per poi scoprire che ancora funziona. A considerare dalla sala del Circolo degli Artisti, questo Wild Light – nuovo lavoro discografico – è stato ben accolto. Li avevo lasciati qualche anno prima sul palco dell’INIT che pregavano il pubblico di ballare. Li ritrovo un po’ incupiti, ma penso che molti li definirebbero più maturi.
Certo è che la performance scorre con una precisione chirurgica, quasi non lasciando il tempo di rendersene conto. I brani sul disco nuovo suonano una favola, ma dal vivo ancora non hanno fatto breccia nei cuori del pubblico romano, che li guarda con attenzione mentre loro si sforzano di far chiudere gli occhi e trasportare la gente altrove. Ci tengono i quattro di Sheffield a costruire uno show coi fiocchi, ma lasciano davvero troppo poco spazio al caso. Saranno le tante basi elettroniche mandate in play, che ingabbiano in una griglia di BPM qualsiasi probabile sbavatura, ma il risultato, per quanto sia cosa gradita a chi ama le architetture fatte di suoni, spesso è un po’ freddo e prevedibile.
“I missed you,” si lascia sfuggire Joe Shrewsbury, il frontman, in uno spiraglio di sincerità verso il pubblico. Il suo sguardo è costantemente altrove, come se fosse sempre concentrato o cronicamente distratto, dipende dai punti di vista. Mi sono chiesto se pensasse troppo alla sequenza di pedali da schiacciare, alla serie di accordi che aveva davanti, poi ho capito che la risposta probabilmente era dietro di lui, nella foto di un uomo, come fosse un santino, fissata con lo scotch sulla testata del suo amplificatore.
Arriva il momento dei classici, Radio Protector su tutti. Il pubblico si ricorda di dov’è. Per una manciata di minuti ci ritroviamo tutti al concerto dei 65daysofstatic, così come se l’erano immaginato le comitive di ragazzini venuti per ballare e fare headbanging e io mi sono ripromesso di restare comunque dalla loro parte, anno dopo anno, anche quando riuscirci risulta un’impresa. Qualche corda comincia a spezzarsi e l’atmosfera d’un tratto si fa più umana e sicuramente più sudata. Ma siamo alla fine, piccola attesa e poi bis.
Tutto in regola, compiti a casa ben fatti, anche se resta il dubbio se di per sé questo sia un pregio, in musica. I 65daysofstatic sono un gruppo a metà strada. Il pubblico del rock può accusarli di essere troppo computerizzati, quello dell’elettronica di non essere abbastanza di tendenza, niente minimal, niente ritmiche fuori posto. La loro sfida? Convincerli entrambi.
Clicca qui per il photo report di Luca Carlino