RECENSIONE: Beck – Morning phase

Recensione di Graziano Giacò

Campo di grano invaso da lucciole: sbocciano elefanti, crostate di rose e zafferano, sorrisi tagliati a fette, friabili come le ali di una farfalla ricoperte di marmellata dal vento inzuccherato e dispettoso direttore d’orchestra in cui convergono melodie speziate dalle fughe di petali oltre il recinto del sole vestito a lutto, piantagioni di note immerse in scivoli di velluto sotterranei che sfociano in lenzuolate di dolcezza post/parto scevra da ogni paternalismo da taglio basso di rivista di “giardinaggio in pieno deserto”.

L’eleganza vulcanica erompe in un arcobaleno vocale slegato da ogni sorta di retorica paracadutistica; le atmosfere soffici rimandano al Dash o alla liaison con retrogusto kipferl tra Maria Antonietta e Luigi XVI.

Morning Phase è il risveglio notturno istigato dallo scippo prematuro di mattine sbadigliate ove sbandierare la teoria della colazione: infilare una serie di biscotti nella tazza fumante di latte al peperoncino e divorarsi persino le dita, in un (col)lasso di tempo(rale) che sconvolge funzioni ormonali delle nostre sinapsi. Immaginate un tavolo fatto da putti che sorreggono assi intrecciate da girasoli scandinavi con l’albero del ciliegio culminante sulla vostra fetta biscottata, pronto a spalmare i frutti del suo peccato sulle mani che arrossiscono per l’innocenza bambina del gesto inconscio: Beck distribuisce arpeggi rivestiti di Nutella e fiocchi di luce al sapor di visciole, e lo fa di nascosto, fregandosene della dogana musicale, scavallando ogni frontiera imposta dalla gendarmeria del “genere”.

Una cena di soli coperti, sul bordo dell’universo, con Hitchcock che filma la scena di spalle mentre s’accende un sigaro finto, pronto a esplodere, vittima della sua stessa suspance. Beck, novello Ulisse, principe idiota dostoieschiano, tragico Amleto col teschio d’una mela in mano, mentre perfora le difese del nostro plesso solare sospirando la password di Ian Curtis: isolation. Una manciata di fiori antigravitazionali lanciati dal cannone di una mongolfiera a destrutturare il sipario sonnambulo di un cielossimoro stretto tra le maglie di un brivido ciclopico che s’insinua nel cono visivo e incide le iniziali di ogni brano sul pentagramma nascosto sotto le tracce di pelle contraffatta che abitualmente amiamo indossare.

Beck è il refuso che s’ostina a essere orso all’interno dell’orologeria frenetica del nostro sistema digerente/inglobante: cuce a mano gli intrecci vocali come De André cuciva con le foglie gli abiti ai suoi personaggi venuti dalle nebbie portuali di Zena. Morning Phase è il cappello di Maigret sollevato dallo sbattere di ciglia del vento, in una mattinata color mandarino dalle sfumature verdi ghiaccio, ove le vele gonfiano il petto per sconfessare il predominio dei gabbiani-mausoleo che svitano le nuvole dal cielo, mentre in un bar si consuma il delitto pregustato dall’accidioso caffè che avvolge il latte col suo mantello di nera cupidigia, invocando un finale apocalittico da sbattere come un tuorlo in una scatola di fiammiferi.

MORNING PHASE – BECK
(Capitol, 2014)

  1. Cycle
  2. Morning
  3. Heart is a drum
  4. Say goodbye
  5. Blue Moon
  6. Unforgiven
  7. Wave
  8. Don’t let it go
  9. Blackbird Chain
  10. Phase
  11. Turn Away
  12. Country Down
  13. Waking Light

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