ANATOMIA DI UN CONCERTO: Keith Jarrett @ Auditorium Parco della Musica [RM] – 11/7/2014

Live report di Antonio Iovane

Ancora non lo sai, ma sei qui per il gesto che compirà dopo circa venticinque minuti dall’inizio del concerto. Comunque sediamoci e aspettiamolo, è venerdi 11 luglio, ore 19, Parco della Musica, Roma. Il posto è buono, centrale sulla sinistra, abbastanza vicino da poter vedere le mani sul piano. Ha scelto questo piano, dei tre che porta con sé abitualmente. È questo che ha vinto il ballottaggio. Il pubblico, nell’attesa, fotografa il piano vincitore perché sa che non potrà fotografare lui. Lui non si fa riprendere, è come Maometto, è come un processo americano, al massimo potrai disegnarlo.

Conosci le sue idiosincrasie, manie, ribadite dalla voce femminile fuori campo che prima del concerto avverte che il concerto verrà registrato, intima di non fare riprese, di spegnere i telefonini e di evitare colpi di tosse, e lì per lì il parlottio si scatena, partecipi anche tu al brusio. Però poi alla fine del concerto ricorderai anche questo, che nel 2014 hai assistito a uno spettacolo senza la sua moltiplicazione esponenziale sugli schermi degli smartphone. E ti ricorderai che nessuno ha tossito. Magari perché è estate, d’accordo. Ma magari – e lo scopri solo adesso – anche perché si può vivere senza tossire ai concerti. Ma tu non sei qui per questo. Sei qui per quel gesto.

Ti aspetti che arrivi puntualissimo oppure che inizi il concerto in ritardo di un’ora perché lui è il genio, e il genio ti sorprende. E infatti lui compare dopo dieci minuti, proprio perché ti aspettavi che arrivasse puntualissimo oppure che iniziasse il concerto in ritardo di un’ora. Il genio ti ha sorpreso. Dieci minuti.

È magro, dinoccolato, scomposto come quando si inchina piegando la testa in avanti e le braccia a peso morto in avanti. Pantaloni neri, camicia nera, aureolato dal bianco dei capelli. Raggiunge l’asta del microfono alla sinistra del palco, ricorda a tutti che il suo è un duro lavoro, che ci vuole concentrazione e chiede silenzio. Poi siede, anzi no, ci ripensa, torna dietro le quinte e poi rientra. Finalmente siede. Finalmente suona.

Il primo brano non ti coinvolge, però sai che cosa sta facendo. Sai che Keith Jarrett siede e crea. È a questo che vuoi assistere: vorresti osservare attraverso la finestra della sua stanza il lampo di Baudelaire che nella notte butta giù qualcuno dei suoi fiori o il tratto di Picasso. Vuoi osservare il momento della creazione che non è altro che una riga nuova nella storia della cultura e, quindi, dell’umanità. Sei cresciuto col Köln Concert nelle orecchie e ti sembrava incredibile che quel concerto, che poi sarebbe divenuto un classico, lui se lo fosse inventato lì per lì e non avrebbe mai potuto ripeterlo, e se avesse voluto ripeterlo sarebbe stato comunque diverso perché diverse erano le condizioni, la predisposizione, la mente creativa del genio. Quello non era un concerto, era un incidente probatorio. Gli spettatori del Grande Fratello osservano il riflesso di vite ordinarie. In te c’è un voyeurismo simile, solo che l’oggetto è la creazione.

Ma il primo brano, appunto, non ti coinvolge. Però osservi le dita di Keith Jarrett che affondano nella tastiera come in un setaccio, come se stessero esplorando alla ricerca dell’oro tonale. Il secondo brano ti piace di più, ma sei ancora freddo. Il terzo è un gradino superiore, Jarrett abusa di accordi diminuiti e bassi ostinati, firma ogni momento. Il quarto è un brano veloce. Ma dopo venti secondi si interrompe. E ti accorgi che alla fine sei venuto lì per quello che sta per succedere.

Tutto quello che succederà nella seconda parte del concerto lo ricorderai. Ricorderai che a un certo punto, stanco di ricordare di fare silenzio o di non scattare foto, chiamerà qualcuno che lo farà al posto suo. Oppure ricorderai di quando, alla fine di un bis, tornerà al microfono dicendo: “ho visto la luce di una fotocamera, qui nelle prime file. Per rispetto spegnetela.” Ricorderai brani bellissimi e come partoriti dal magma, dalla materia grezza che ti aveva offerto nei primi momenti e ricorderai il suo proverbiale battere i piedi, la sua voce che si intreccia alla linea melodica e il suo alzarsi e terminare la musica così. Ma adesso Keith Jarrett fa qualcos’altro. Interrompe il brano, si rivolge al pubblico e dice che “questa (il brano che ha appena cominciato, ndr) è un’idea. Ma me n’è venuta un’altra migliore.” E suona qualcosa di completamente diverso.

Ora non so in quale sonno estatico io sia finito mentre KJ suonava questo brano trascendentale. Ero troppo altrove per descriverlo. Ma so, appunto, che ero venuto per provare questa sensazione: l’istante in cui senti che l’umanità ha una nuova riga della sua storia.

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