L’UOMO CHE TRASFORMA IN RITMO TUTTO QUELLO CHE TOCCA: Stevie Wonder @ Lucca Summer Festival 2014 – 20/7/2014

Live report di Antonio Iovane

L’uomo che trasforma in ritmo tutto quello che tocca appare poco prima delle dieci, avanza piano su un tappeto sonoro rosso disteso da Marvin Gaye. Aveva cominciato dietro le quinte a suonare alla tastiera a tracolla la scala ossessiva di How sweet is to be loved by you, e poi lo vedi il camicione etnico verde, i capelli – non molti – ancorati alla nuca e la luce del suo sorriso al primo tripudio dei novemila. Di cui buona parte, il pubblico in piedi, piuttosto nervoso, relegato in un corridoio umanitario dietro i posti di platea, condizione sintetizzata nella pietrata di fischi diretti a D’Alessandro (metà dell’organizzazione D’Alessandro & Galli) incautamente salito sul palco per ricevere un premio della Provincia poi dedicato, altrettanto incautamente, agli stessi fischiatori, che in un tempo passato – in qualità di clienti – avevano sempre ragione.

Ma non perdiamo tempo e ascoltiamolo, Stevie Wonder, adesso al centro del palco, davanti ai 14 musicisti di un’orchestra quasi tutta afroamericana che voglia di fare arredo non ne ha. Ci sono due percussionisti, il batterista, il bassista, due chitarre elettriche, tastiere, pianoforte e quattro coristi (un uomo e tre donne, che se qui non si parlasse di Musica verrebbe voglia di segnalare, per altri altissimi meriti, quella di origine ispanica). Ti aspetteresti una voce incrinata dagli anni (hai sentito Robert Plant, dieci giorni prima, e ne sei uscito affranto), e invece la voce dell’uomo che trasforma in ritmo tutto quello che tocca sembra essere stata crionizzata all’inizio degli anni ’70 e consegnata intatta ai contemporanei.

A quel tempo la storia della musica aveva indicato lui e un filotto di album superlativi. Così ecco a voi Signed, sealed, delivered, Sir Duke, I wish, i bassi di Higher ground, quando sul dizionario, alla voce black music, trovavi la foto di Stevie Wonder. Poi gli anni ’80 hanno bandito l’estro e ciascuno ha dovuto arrangiarsi come poteva. Così gliele perdoni, la piagnucolosa I just called to say I love you o Happy birthday e la sua atmosfera da compilation italiana di balli di gruppo. Perché Stevie Wonder ti regala Day tripper o Michelle dei Beatles (quest’ultima totalmente improvvisata), il suono inconfondibile della sua armonica a bocca, un duetto/dialogo con la figlia corista Aisha in cui arriva a scherzare sulla propria cecità, Ebony and Ivory in cui scimmiotta, abbassando registro, la voce del sodale Paul McCartney. Ti regala la festaiola Tequila giocando con la parola “Lucca”. Butta lì un “vooolaaareae”, ma è un “vooolaaareae” dell’uomo che trasforma in ritmo tutto quello che tocca, mica di Lady Gaga.

C’è una coppia di sposi pratesi ancora in abito di nozze, tra le prime file. Viene fatta salire sul palco. Lui suona per loro All I do e For once in my life, mentre i due azzardano qualche passo. Poi li abbraccia, e lei – davanti a quella benedizione – assume l’espressione di Miss Italia quando le dicono che ha vinto.

Più avanti chiuderà con Superstition, dove siamo tutti lì, tarantolati e in piedi tra platea e corridoi umanitari, e forse anche nell’area VIP (il sogno di Martin Luther King comprendeva la fine del razzismo, delle guerre e delle aree VIP e degli organizzatori che non provano vergogna a farlo scrivere davvero, “Area VIP”).

Ma prima, a proposto di guerre, c’è il momento forse più intenso. Sulla base di Visions ecco un discorso parlato, semplice e necessario contro la guerra e il terrorismo. Cita – tra le altre cose – l’aereo abbattuto in Ucraina. Non conta però quello che dice, conta come lo dice. Interroga con lo spirito delle domande elementari che poi è il suo spirito. Anche sull’amore non fa filosofia, i suoi testi sono semplici, senza girare troppo attorno al problema. Così adesso chiede: “perché la guerra? Perché il male?” e arriva a interrompersi perché piange, piange davvero, Stevie Wonder, non ci puoi credere, davanti a quella tastiera lui si interrompe e piange sinceramente. Puoi rispondere, con un sorrisetto in tralice, che quelle dell’uomo che trasforma in ritmo tutto quello che tocca sono domande ingenue, e magari lo sono davvero. Ma non hai la risposta.

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