Recensione di Francesca Vantaggiato
Don’t mean a thing, l’EP d’esordio dei Da Black Jezus, è uscito già da qualche mese per la 800A Records, ma io ho aspettato parecchio prima di scrivere qualcosa a riguardo. Ora vi spiego perché.
Quelli di Don’t mean a thing non sono brani da ascoltare mentre si fa qualcos’altro, richiedono una concentrazione massima ed una situazione emotiva ben determinata. Per coglierne la delicatezza e l’intimità, bisogna aver voglia di solitudine, di chiudersi in sé stessi, di lasciarsi cullare dalla nostalgia. Non lo dico in senso negativo, badate bene, perché parliamo di sentimenti che ci costituiscono come esseri umani fatti di carne ed ossa. Il disco dei Da Black Jezus è perfetto per dargli sfogo e riscoprire il bisogno di riappropriarsi del giusto tempo per pensare, stare fermi e rimuginare.
Uso questo verbo di proposito, perché questo disco mi sembra il flusso di coscienza di una persona incagliata su un unico pensiero. Avete presente quando vi succede qualcosa di brutto e non riuscite a pensare ad altro che a quello, continuamente e ossessivamente, senza riuscire a trovare una spiegazione o una soluzione? Per tutto l’EP ho avuto la sensazione di essere incastrata in un tunnel mentale ed emotivo senza uscita, disegnato dai giri armonici chiari e ripetitivi della chitarra di Ivano Amata e dalla voce intensa e insieme fragile di Luca Impellizzeri, che resta sorprendentemente emozionante sia nei momenti in cui mormora e sussurra, sia quando si fa più acuta. Il tutto incastonato in scelte stilistiche eleganti e delicate estremamente semplici, senza svolazzamenti, ghirigori o pomposità che appesantiscano la struttura e il sound essenziali che rappresentano la vera originalità di questo disco.
Don’t mean a thing, la prima traccia, è di una semplicità disarmante e commovente fatta di un tum-tum-cha basilare quanto primitivo e di un giro di chitarra circolare che crea dipendenza. Resti in ascolto e non puoi che concordare con quanto dice il testo: viviamo in un mondo dove tutto è falso e in cui regna l’ipocrisia e l’impossibilità di agire che inevitabilmente ti trascinano verso un rischioso menefreghismo. Quando la voce diventa acuta nel verso “believin’ no philosophy / with a crossbone in the cradle / no playin’ games for the childhood / no saints for the prayers” ti sale una desolazione sconfinata che trova il suo abisso nel finale “sleep is not a great deal / if your eyes ignore bad things”. E finisci per vergognarti anche un po’ di te stesso, per tutte quelle volte in cui hai fatto finta di non vedere.
Si prosegue chiamando in causa uno dei temi storici della tradizione blues: una travagliata storia d’amore idealizzata, consumata e finita. Call you mine è disperata e rabbiosa fin dall’inizio “You casted the stone to the blindness of my heart/hurt me so, hurt me so” e propone un must, ossia l’immagine dell’innamorato rimasto solo che già vede l’amata tra le braccia di una altro “Kissing your laughter and adorin’ your shape / Now it’s someone else work, I guess he do it well”. Anche qui, siamo dentro una spirale infinita, che continua imperturbabile a ruotare sulla stessa ossessione: giri di chitarra insistenti, melanconici, ripetitivi, metafora di un pensiero che ritorna sempre uguale “don’t you wanna come over and let me call you mine?”. La stessa malinconia e fissazione monomaniacale la ritroviamo in I’ll be dry, mentre It’s a long way baby è un gran pezzo, forse perché parla di qualcosa di tangibile e sensuale, una notte passata tra due amanti bramosi l’uno dell’altra “my desire is bloomin’ darlin’ and just your hole can pick it up/ and i wish you whole until get lost inside of you”.
Il brano rivelazione è certamente Sometimes, un bel pezzo potente che non a caso è stato scelto come primo singolo, accompagnato da un video, rigorosamente in bianco e nero, in cui veniamo proiettati nei bellissimi boschi dei Nebrodi, scenario ideale per questa canzone romantica e passionale. La voce è piena e calda e ci accompagna in questa specie di ballata folk che diventa preziosa con l’aggiunta dello xilofono (da quanto tempo non lo sentivo?!). L’ultima traccia è tutta strumentale: For my pretty little tear lascia spazio alla chitarra che qui si fa triste e malinconica per chiudere un EP lineare e coerente in cui strumento e voce si completano e si sorreggono in maniera equilibrata e incisiva.
L’unico neo che ho individuato in Don’t mean a thing sta nei testi a volte esageratamente melensi, stile lirica provenzale, vedi ad esempio il verso “I need just an angel like you to hold my hand” in I’ll be dry o “Don’t ya really come over and let me glorify your shine” di Call you mine. Trovo invece che la semplicità della composizione, il timbro particolarissimo della voce, il suono soul/black/pop di stampo inglese siano il vero motivo per cui i Da Black Jezus rappresentano una novità nel panorama italiano, sia indipendente che mainstream. Mentre la tendenza principale sembra essere quella di aggiungere elementi, caricare i brani, disumanizzare la musica con l’elettronica, i Da Black Jezus puntano sulla sottrazione, l’essenzialità e il ritorno all’umanità della musica, intesa come espressione dei sentimenti più semplici, come la tristezza, la nostalgia, il rimpianto. Ci voleva un disco così.
Don’t mean a thing – Da Black Jezus (800A Records, 2014)
- Don’t mean a thing
- Call you mine
- I’ll be dry
- It’s a long way baby
- Sometimes
- For my prettylittle tear
[youtube=https://www.youtube.com/watch?v=lJDkHcvqd3w] Ti piace Just Kids? Seguici su Facebook e Twitter!