LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: MANUEL RINALDI

di Gianluca Clerici

Formalmente siamo in guerra. Guerra contro le istituzioni, guerra aperta con le idiologie confezionate, guerra spietata a mano armato contro l’edonismo di massa e la sottilissima genialità che un sistema ha di manipolare gusti e tendenze. Al bando ogni forma di televisione, social network, avatr e tutto quel che il virtuale ci sta regalando. Ok…non è così spietato Manuel Rinaldi ma dalla sua voce trasuda anche di peggio. Pop…rock…tanto rock…gonfie vene e sangue acido. Il suo disco gira e, per quanto qualcuno possa dargli dell’incoerente, lui strizza bene e con gusto l’occhio e l’orecchio alle melodie che piacciono tanto al pop italiano. Quanto rock…le sue risposte alle interviste di Just Kids Society:

Fare musica per lavoro o per se stessi. Tutti puntiamo il dito alle seconda ma poi tutti vorremmo che diventasse anche la prima. Secondo te qual è il confine che divide le due facce di questa medaglia?
È una linea molto sottile che divide le due cose. Molte volte ci si impunta nel volere a tutti i costi che le nostre passioni diventino un giorno il nostro lavoro. A volte questo accade, altre no. Mi sono scontrato parecchie volte su questo concetto e oggi ho le idee più chiare. Per prima cosa, fare musica per se stessi, senza aspettarsi nulla in cambio. E’ molto complicato mantenere un certo distacco da un qualcosa che nasce da te e che in qualche modo può arrivare a altri ma, è un atteggiamento assolutamente da ricercare se non si vuole incappare in spiacevoli cadute morali, dovute ad aspettative su cose che casomai non arrivano. Sono convinto che se le cose devono andare, andranno senza forzature. Fare musica per se stessi ti rende più autentico e l’ autenticità, ti porterà casomai a trasformare la musica in lavoro. Purtroppo stiamo parlando di un settore imprevedibile, un mondo dove spesso le cose non dipendono solo esclusivamente dal tuo volere.

Crisi del disco e crisi culturale. A chi daresti la colpa? Al pubblico, al mercato, alle radio o ai magazine?
Credo ci siano diverse responsabilità e qui metto dentro anche gli artisti stessi. Sarebbe troppo semplice puntare il dito contro qualcuno senza essersi fatti prima qualche domanda. La crisi del disco è incominciata quando la musica è diventata un qualcosa che non aveva più valore e quindi non andava pagata. Internet ha reso incontrollabile lo scambio musicale tra utenti e le etichette discografiche non hanno saputo gestire la situazione. Il pubblico trovava musica gratis, perché doveva spendere soldi per comprarsi un disco? Le radio piano piano hanno smesso di fare ricerca e i grandi network hanno incominciato a proporre scalette musicali tutte uguali e dare sempre meno spazio alla musica. L’ ascoltatore medio di conseguenza sentendo le stesse canzoni martellate su tutte le radio richiede solo quegli artisti. Il pubblico medio ( non tutti per fortuna) vanno alla ricerca dei soliti noti che vedono in Tv, sui giornali e che ascoltano in radio. Manca la cultura di andare a ricercare gli artisti “nuovi”. L’ artista (non tutti per fortuna) rincorre le sonorità e il generi del momento e il prodotto è così confezionato: omologato. Il mercato omologato diventa saturo e non si vendono i dischi. Siamo tutti responsabili…sicuramente chi più e chi meno ma tutti responsabili.

Secondo te l’informazione insegue il pubblico oppure è l’informazione che cerca in qualche modo di educare il suo pubblico?
L’ informazione cerca in qualche modo di educare il pubblico, peccato che spesso venga fatta della cattiva-informazione per scopi ben precisi.
Sono per l’ informazione educativa, quindi vera.

La tua musica, un rock tinto di pop e privo di schemi ed etichette. Si arrende al mercato oppure cerca altrove un senso? E dove?
Cerco altrove un senso. La mia musica al momento non segue il mercato attuale, forse lo farà fra 10 anni ma non per questo devo cavalcare ora quello che già fa la maggior parte degli artisti. Voglio dare un senso alla mia musica cercando di essere il più vero e sincero possibile. Questo disco rispetto al precedente è più “duro” non perché ho voluto per forza fare un disco così ma, perché nel momento in cui l’ ho scritto, io ero così, duro, arrabbiato e spaventato e così è uscito “Faccio quello che mi pare”. Il senso della mia musica è esternare quello che sento nel preciso istante in cui lo sto vivendo e per questo, cerco chi, riesce a cogliere queste sfumature.

Tu che di certo non sei di primo pelo e non possiamo chiamarti emergente. La vera grande difficoltà di questo mestiere?
Purtroppo non c’è una vera grande difficoltà ma diverse grandi difficoltà. Trovare gli spazi per dire la tua in un mondo dove ogni giorno escono centinaia di singoli nuovi è diventato molto complicato. Suonare dal vivo è diventato sempre più complesso. Cercare di non farsi influenzare troppo sul lato artistico. Cercare di avere il totale controllo della tua musica e accollarti le responsabilità della tua promozione, distribuzione ecc, ecc richiede molta responsabilità e investimenti spesso onerosi. E’ un sistema difficile, la musica va presa per quello che ti dà, fintanto che ti emoziona va tutto bene, quando comincia a prevalere lo stress c’è qualcosa che non quadra. Occorrerebbe mantenere un certo distacco che ti permette di non aspettarti nulla ma accettare quello che viene…molto complicato!

E se avessi modo di risolvere questo problema, pensi che basti?
Ritornando al concetto di prima, anche dopo aver risolto i problemi che ho elencato, credo che non basti. Occorrerebbe limitare il potere di televisioni e radio o meglio, cercare più equità. Ci vorrebbe un maggior sensibilità per aumentare la cultura artistica da parte dello Stato, creando più spazi e meno burocrazia per promuovere la musica. Più sostanza e meno immagine.

Finito il concerto di MANUEL RINALDI: secondo te il fonico, per salutare il pubblico, che musica di sottofondo dovrebbe mandare?
Un brano strumentale alla “Pink Floyd style”…anzi azzardo anche un titolo: “Atom heart mother” che con i suo 23 minuti lascia tutto il tempo per il relax post concerto.

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