LIVE REPORT: KING CRIMSON @ AUDITORIUM CONCILIAZIONE, ROMA, 11/11/2016

Live report di Massimiliano Speri
photos by Tony Levin – www.tonylevin.com

Ho abbandonato Roma ormai da alcuni mesi, dopo sette lunghi anni di tormentato soggiorno, e tornarci mi fa sempre uno strano effetto: basta questo a gettare una luce obliqua sulla serata. E poi sono insieme a mio padre: non ricordo quale sia stato l’ultimo concerto assieme. D’altronde la trasferta è stato una sua proposta, e tenendo presente che è stato proprio lui a farmi conoscere il gruppo in questione, beh, glielo dovevo.

Diserto spesso i concerti di mostri sacri nei paraggi dell’andropausa: il timore di una pantomima al sapor di naftalina mi rende pavido, e delusioni di questo tipo poi bruciano duro. Ma stiamo pur sempre parlando di una band dalla comprovata imprevedibilità, che fatico a immaginarmi sguazzante nella nostalgia. Poi c’è questa storia poco chiara delle tre batterie (una delle quali pilotata da Pat Mastellotto: ottimo), che al contempo mi incuriosisce & intimorisce: di sicuro si sperimenterà oltre i loro pur graditi cliché. Ci sono Mel Collins a fare le veci degli esordi, Tony Levin come ambasciatore della seconda fase e i nuovi arrivati ad aprire varchi tutti da scoprire: vediamo un po’ che combinano…

Ci facciamo strada nell’affollato Auditorium Conciliazione fuggendo da una pioggia scrosciante, e in sala veniamo accolti da un ipnotico loop strumentale tratto da Islands (per inciso, uno dei miei dischi preferiti: gran biglietto da visita).
Ai lati del palco campeggiano due enormi cartelli atti a dissuaderci dall’impugnare qualsiasi apparecchio catturante luce e/o suono durante l’esibizione: in caso contrario, le severissime pattuglie incravattate della struttura provvederanno non solo a requisirceli, ma anche a buttarci fuori dalla sala. Bene! In compenso, aggiungono, saremo autorizzati a sguinzagliare i flash quando Tony Levin immortalerà la platea con la sua reflex, a sipario abbassato: “com’è umano, lei…”.
L’armamentario esibito è annichilente: le postazioni dei drummers paiono delle trincee, non mi stupirei di veder spuntare un lanciarazzi dietro alla barricata dei tamburi. Ma la cosa che mi terrorizza di più è proprio il piccolo trono del leader, al solito in disparte in un angolino, con un dolmen nero che eclissa due Les Paul da bava alla bocca; mi sporgo per captare più dettagli, cazzo è come temevo: una pila di effetti a rack da fare invidia a uno studio di post-produzione ben attrezzato, una piccola pulsante centrale nucleare. Porca puttana, perché ho scelto di interessarmi di fonia se poi mi vivo così male l’altrui potenza di fuoco tecnologica?… L’altro chitarrista pare che userà una Paul Reed Smith: fetore di fusion, molto male.

Gli altoparlanti ribadiscono per l’ennesima volta l’infrangibile divieto e ci informano che tra i due tempi ci sarà un’intervallo di 20 minuti, poi le luci si abbassano e i protagonisti scendono in campo, accompagnati dal boato del pubblico. I tre picchiatori prendono posizione e dipingono un sofisticato proemio percussionistico, presto incalzato da una sequenza di note striscianti, subdole, inequivocabili. No vabbè, non può essere, e invece è proprio così: Lark’s Tongues In Aspic, Part One, tié. Un inizio più “classico” non poteva essere immaginato, e la cosa paradossalmente è spiazzante: mi aspettavo una valanga di nodosità indecifrabili, e sti vecchi marpioni mi fanno fesso con la cosa più prevedibile del mondo. Mica scemi. Sarà una furbata iniziale per rassicurare i fan più impreparati? Oh, no: neanche il tempo di concludere e scatta Pictures Of A City, in cui si fa strada la timida voce del secondo chitarrista Jakko Jakszyk (un uomo una consonante). Poi una dietro l’altra Cirkus, The Letters, Sailor’s Tale (versione fantastica), fino ad una sontuosa Epitaph che manda prevedibilmente in estasi gli spettatori di bocca buona (non me: mai stato un ultrà di certe loro ballatone cosmiche), con tanto di singalong da curva. Jeremy Stacey si alterna tra percussioni e mellotron, Fripp è un fiume in piena di effetti e riverberi, il resto della truppa pompa come la giugulare di un rinoceronte. Oddio, ma allora sarà davvero una parata di hit d’annata? La cosa mi gratifica o mi rende perplesso? Devo ancora capirlo. Da lì in avanti si alterneranno flash da album più recenti e gloriose pepite del passato remoto, culminando in una Easy Money che è forse l’apice della serata, tesa acida psicotica, con il boss perfettamente a suo agio nel mimare il violino di David Cross sulla sei corde. Prima di ritirarsi dietro le quinte, due ultimi colpi da KO: The Talking Drum e la seconda parte di Lark’s Tongues In Aspic, a dare l’idea di una scaletta ponderata con teatrale strategia.

Pausa.
Primi appunti. Nel complesso sono soddisfatto ma le riflessioni sono, curiosamente, quasi tutte negative. Innanzitutto, l’acustica non mi convince: è confusa, si perdono un sacco di dettagli, il basso non esiste, le chitarre si impastano, i fiati spingono poco, le batterie schiacciano tutto. Ed ecco la nota dolente: come gli è venuto in mente di usarne tre, tutte armate fino ai denti, tutte suonate da vicari di Thor in terra, tutte amplificate (qualcosa come una trentina di microfoni solo per loro, ad occhio) a livelli spropositati e con troppo ambiente? Oltre ad opprimere il suono generale si incastrano in maniera troppa serrata, perdendo in potenza ciò che guadagnano in complessità: ne fanno le spese i brani più d’impatto. Poi, Collins a tratti non è un po’ troppo lezioso, con quella sua aria da Kenny G fresco di conservatorio? Quanto al cantante col nome impronunciabile, se la cava ma è privo di carisma, limitandosi a svolgere il compitino con diligente rispetto, e come chitarrista viene letteralmente seppellito dal vulcanico Fripp. E dall’alto della mia supponenza ho una frecciatina anche per lui: perché privilegiare in quasi tutte le canzoni timbri così eterei anziché le sfuriate lancinanti che hanno scavato le viscere di generazioni? Un po’ più di mordente in più non guasterebbe, ecco.
Si riprende con una sapiente alternanza di registri: il secondo atto di Lizard accanto ad una Indiscipline pressoché irriconoscibile, l’asso pigliatutto di Red che funge da faro tra tanti brani minori che confluiscono uno nell’altro, più due prevedibili nuove impennate di retorica: The Court Of The Crimson King così maestosa da sfiorare il kitsch e una languida Starless programmaticamente piazzata in chiusura, con metà teatro in lacrime. Nel complesso un set con più enfasi sulle parti strumentali, meno facile, non sempre a fuoco ma ammirevole per la chirurgica perizia dei Nostri.
A confermare la voglia di soddisfare tutti i canoni del concertone rock da arena, arrivano anche i richiestissimi bis: una sfuriata batteristica all’unisono che sfonderebbe i timpani ad un catatonico, e indovinate un po’ cosa succede?… Sputtanata quanto si vuole, la traccia che ha fatto conoscere al mondo l’evocativo stop&go di Fripp rimane un archetipico esempio di drammaturgia rock, una di quegli affreschi così mitologicamente perfetti da incantare anche gli scettici più impenitenti. Io però non ho davvero ritegno, e riesco a trovare il pelo nell’uovo: ma se i batteristi avessero suonato tutti la stessa parte, versione onda d’urto, anziché incapricciarsi con quelle maledette combinazioni poliritmiche che francamente, dopo due ore e mezza di concerto, hanno rotto il cazzo? Ok, sputatemi pure.

Gavin Harrison (non so voi, ma io i Porcupine Tree non li ho mai sopportati) si concede un lungo, tellurico solo: forse un po’ esagerato, ma ci sta.
Tony Levin (che si conferma uno dei bassisti più versatili e originali di sempre, stasera purtroppo penalizzato da un mix non all’altezza) sfodera la macchina fotografica e si porta a casa un ricordo del pubblico, ma della cosa più strabiliante dell’intera serata forse se ne accorgono in pochi: come se niente fosse, Fripp tira fuori l’iPhone (sì, anche lui ha questi vezzi da comune mortale) e si spara un selfie sul palco. Ora, venitemi a dire che una scena simile non vi rimborsa il pur oneroso costo del biglietto…

Il pubblico è stato incandescente per tutta la durata del concerto: scrosci di applausi come se non ci fosse un domani, cori a petto gonfio, e l’immancabile abitudine filo-operistica di alzarsi in piedi per sottolineare l’apprezzamento che per una volta mi sembra ben spesa. Noi italiani avremo tanti difetti, ma sappiamo come far sentire a casa dei forestieri, ci va riconosciuto.

Ribadisco i pro e i contro già evidenziati, con un’unica postilla: perché trascurare quasi integralmente il trittico Discipline-Beat-Three Of A Perfect Pair, l’imprescindibile chiave di volta tra i vecchi & i nuovi Re Cremisi? Forse il buon Jakko non se la sente di confrontarsi con le corde vocali di Adrian Belew?…L’album più predato, invece, il sommo capolavoro LTIA: nessunissima obiezione.
Sul notturno di ritorno, inevitabile faccia a faccia con mio padre: lui (esperto musicista/musicofilo, che li vide illo tempore, sempre a Roma, tour del’73: eh…) nel complesso è più entusiasta di me e non approva molti miei appunti, ma di base siamo d’accordo: è stato un concerto emozionante, pieno di spunti di assoluto interesse, lungo ma non pesante, ben equilibrato tra passato&presente, con all’opera musici iperuranici. Cosa chiedere di più, in fin dei conti?
E adesso sarà il caso di riazzerare la mente e ristorare le membra: il giorno dopo si parte alla volta di Milano, dove ci attendono i Wilco per ribaltare il confronto generazionale che ha reso ancora più speciale questa serata…

Setlist:

Set 1
1. Larks’ Tongues in Aspic, Part One 2. Pictures Of A City
3. Cirkus
4. The Letters
5. Sailor’s Tale
6. Epitaph
7. Hell Hounds Of Krim
8. Easy Money
9. VROOM
10. Peace: And End
11. Fairy Dust
12. Meltdown
13. The Talking Drum
14. Larks Tongues In Aspic, Part Two

Set 2
15. Magic Sprinkles
16. Lizard_The Battle Of Glass Tears – Part I: Dawn Song 17. Indiscipline
18. The Court Of Crimson King
19. Red
20. The ConstruKction Of Light
21. A Scarcity Of Miracles
22. Radical Action II

23. Level Five 24. Starless

Encore:
25. Devil Dogs Of Tessellation Row 26. 21th Century Schizoid Man

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