INTERVISTA: SEBASTIANO GAVASSO, DRUGO SULLE NOTE DI MORGAN

“Arancia Meccanica” è stato uno degli spettacoli teatrali italiani più seguiti del 2016, con ben venti giorni di repliche al Teatro Eliseo di Roma. Uno spettacolo metafora dei tempi attuali, che ha aggiunto nuovi connotati al capolavoro di Stanley Kubrick uscito nel 1971 e tratto dall’omonimo romanzo distopico di Anthony Burgess del 1962 e che nonostante il passare degli anni rimane sempre incredibilmente attuale, innovativo, visionario, distorto, grottescamente tragico e spaventoso, commovente e bellissimo. Con queste premesse, le splendide musiche non potevano essere che dell’unico e istrionico Morgan. A parlarcene è Sebastiano Gavasso, uno dei famigerati e spietati “drughi”.

di Francesca Amodio

Quanto tempo occorre e come ci si prepara per un ruolo complesso come quello del drugo di Kubrick, anche linguisticamente parlando, visto che si tratta anche di affrontare una lingua con termini difficili perché inventati?
È stato un lungo percorso a partire dalla prove che sono durate oltre un mese, vedendoci sei giorni su sette per otto ore al giorno… Una full-immersion di Nadsat e LattePiù! Partendo dalle improvvisazioni (in Nadsat, il linguaggio/slang dei drughi) siamo poi passati al testo che abbiamo scomposto e modellato sui quadri scenici che ci venivano suggeriti. Quando poi lo “scheletro” dello spettacolo è stato definito, abbiamo iniziato ad abitarvi ed è cresciuto replica per replica. Oggi dopo tre anni è rodatissimo.

Secondo il tuo parere, cos’è che lo spettacolo conserva del film e cosa invece ha aggiunto?
Ne conserva il messaggio, la violenza (psicologica soprattutto), le radici. Ha aggiunto una modalità di violenza che non prevede il contatto fisico, e una certa comicità grottesca che il teatro sa rendere molto bene.

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“Arancia Meccanica” uscì nelle sale ben quarantasei anni fa, eppure ancora oggi risulta essere molto attuale, come dimostra anche il vostro spettacolo teatrale. Per quale motivo secondo te?
Perché l’idea di libertà e libero arbitrio è sempre attuale…E’ attuale nei testi sacri, figuriamoci in arte e letteratura! Inoltre la tendenza dell’ uomo a produrre e subire violenza è incancellabile. Pensiamo a chi recentemente ha “ucciso per provare cosa si prova” o ai casi di violenza impunita da parte delle forze dell’ ordine. Due aspetti presenti nel libro, nel film, nello spettacolo e purtroppo nella realtà.

Quale pensi che sia il messaggio che passa attraverso la rappresentazione teatrale del film, oggi?
Che violenza e necessità di libertà di espressione sono caratteristiche dell’uomo. La gestione di entrambe è complessissima, sia per l’individuo che per lo Stato.
Hai all’attivo diverse esperienze cinematografiche anche recenti. Quali sono le maggiori differenze che riscontri con la recitazione teatrale?
Il principio è lo stesso: trasmettere in maniera credibile ed empatica un’emozione, un pensiero, una situazione. Le modalità possono essere diverse, ma credo sia una questione più legata alla regia che all’attore.

Qual è il ruolo che ancora non ti hanno affidato e che ti piacerebbe un giorno sperimentare?
Un estremista di destra negli anni di piombo.

Cosa consiglieresti ad un giovane che volesse intraprendere la carriera di attore?
Di farsi una solida base culturale, oltre che etica. In un mestiere così altalenante c’è bisogno di punti di riferimento nella testa e nel cuore. Ho avuto la fortuna di laurearmi in filosofia prima di intraprendere la via attoriale (che considero molto legata allo sviluppo della comprensione del pensiero e delle emozioni umane, quindi legatissima sia alla filosofia che alla psicologia) e tutto quello che ho studiato lo trovo utilissimo sia nella gestione della “carriera” sia in scena. Sul palco e nella macchina da presa tutto è leggibile, ad un certo punto quindi “finisce l’attore, inizia l’uomo”; per questo credo sia fondamentale lavorare sulla propria formazione e sulla propria “umanità”. Riporto un motto che mi guida e che ho imparato da Diogene di Sinope: “Un si. Un no. Una linea retta. Una meta.”

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