LIVE REPORT: BLACK HEART PROCESSION PERFORMING 1 @ LOCOMOTIV, BOLOGNA, 04/03/2017

di Massimiliano Speri – WAREHOUSE: SONGS AND STORIES

The Black Heart Procession 2017 tour

Uno dei tanti motivi per cui sono legato ai Black Heart Procession è che, nel lontano dicembre 2009 (anno a cui risale il loro ultimo, a tutt’oggi, episodio discografico), furono la prima band che vidi sopra ad un palco nella Roma in cui mi ero da poco trasferito. E torno a vederli con grande piacere, dato l’anniversario che hanno deciso di celebrare: in controtendenza con la maggioranza delle critiche, ho infatti sempre preferito il primo album rispetto al secondo, e ascoltarlo per intero dal vivo non potrà che commuovermi fino alle lacrime. D’altronde, sono quelle le canzoni per cui la maggior parte di noi smania: pur continuando a produrre ottima musica, la fama di Pall Jenkins & Co resterà sempre legata a quei primi due irripetibili lavori, opere di culto che hanno piantato una nuova piccola pietra miliare nella storia della moderna canzone d’autore disperata.

Due le aperture, tutte e due godibili: World’s Dirtiest Sport è una one man band dietro cui si cela Kevin Branstetter dei Trumans Water, che si piazza sotto al palco con un incredibile assortimento di mercanzia elettronica e, manco fosse un Jesse Fuller della generazione X, si lancia con fare stregonesco in un ipnotico vortice di loop psichedelici; i Grimoon sono invece un trio italo-francese dedito ad una folktronica melodica e pastorale, resa ulteriormente evocativa dal pittoresco cantante e dei visuals in stop-motion sullo sfondo (di loro produzione, ci tengono a specificare).

Nel frattempo il locale si è riempito fino all’orlo, e poco dopo ecco arrivare il piatto forte della serata…Luci basse, i quattro seduti come i membri di una piccola orchestra, e poi lo straziante pigolio della sega a librarsi tra le lugubri note del piano: The Waiter (in cui aleggia possente il fantasma di Leonard Cohen) più che una canzone è un ago che ti penetra il cuore fino a trapassartelo, e ancora meglio fa la successiva The Old Kind Of Summer, polveroso walzer waitsiano dominato dal sapore mitteleuropeo di un organetto. La tristezza infinita di queste canzoni lascia sbalorditi ad ogni ascolto, e dal vivo l’emozione raddoppia di intensità. Jenkins, ingrassato e incanutito, sembra letteralmente un’altra persona dalla volta precedente, ma la voce non ha perso un millesimo della sua connaturata capacità di far male. Poi un cambio di atmosfera: Jazzmaster in canna, batterista finalmente libero di sfogarsi e il risultato non può che essere una Release My Heart quantomai liberatoria, con mezzo locale ad intonare l’invocazione del ritornello. Even Thieves Couldn’t Lie, ballatona d’altri tempi degna di Nick Cave, svela le doti di crooner del frontman e pare riportare uno spiraglio di serenità, subito spazzato via dall’angoscia martellante di Blue Water-Blackheart, in cui ogni accordo di piano (decisamente lo strumento dominante della serata) è un cazzotto in piena faccia, a malapena medicata dalla sconsolata litania dark di Heart Without A Home. Dopo il breve interludio strumentale di The Winter My Heart Froze arriva la spettrale Stitched To My Heart, che non sfigurerebbe come colonna sonora di un cortometraggio horror, e poi Square Heart (state facendo caso alla parolina ricorrente?..) che riacciuffa le briglie e cavalca a ritmo sostenuto. In A Tin Flask (che, chissà perché, mi ha sempre ricordato gli Eels) riaddolcisce gli animi, e ci prepara all’apice melodrammatico della serata: A Heart The Size Of A Horse, otto minuti di solenne galleggiamento su un metafisico tappeto di sintetizzatore, pianoforte & timpani, è una di quelle cose che sembrano non avere confini nello spazio e nel tempo, in un eterno riverberarsi che trasforma la propria fragilità in onnipotenza. Le lacrime gocciano ormai copiose, e non potrebbe essere altrimenti.


Finito il disco, i quattro si ritirano per poi tornare a deliziarci con tre magnifici bis, a partire da una A Cry For Love che dentro altri abiti potrebbe trasformarsi in un’esplosione soul quasi da classifica. The War Is Over al contrario è tutto un timido sussurrare, come se non si credesse fino in fondo allo speranzoso titolo. Infine, dopo aver presentato la band, Jenkins si concede un inatteso monologo: “Sia io che Tobias (il tastierista e membro fondatore, ndr) siamo nati a San Diego. Questo vuol dire che siamo cresciuti in mezzo ai messicani: nella mia classe metà degli alunni erano messicani. Per noi era normale, ma adesso a quanto pare potrebbe non esserlo più: per questo abbiamo deciso di scrivere una nuova canzone, e adesso ve la facciamo ascoltare”. Ed è tanta la sorpresa per queste parole che ci mettiamo un po’ ad accorgerci che il pezzo in questione sarebbe stato una perla anche senza cotanta presentazione…
Sono regali simili a rendere unici certi eventi: grazie dal profondo del cuore, Pall.

Ci sono ben pochi commenti esprimibili su una serata impeccabile sotto tutti i punti di vista. Molti mormorano che non sarebbe guastata qualche citazione dal secondo album, ma io non sono d’accordo: a volte è bene non esagerare, e ci sono sostanze che è meglio non mescolare.
Il Locomotiv si conferma un locale di alto livello, anche sul piano tecnico: una sfida non facile con i Black Heart Procession, fautori di un’alchimia semi-acustica in cui echi & fruscii contano quanto le note.
Sia io che il mondo che mi circonda siamo parecchio cambiati da quella bellissima serata romana di otto anni fa, ma la musica dei bardi californiani fa accapponare la pelle adesso come allora: le cose Belle, evidentemente, non invecchiano mai.

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Setlist:
1. The Waiter
2. The Old Kind Of Summer
3. Release My Heart
4. Even Thieves Couldn’t Lie
5. Blue Water-Black Heart
6. A Heart Without A Home
7. The Winter My Heart Froze 8. Stitched To My Heart
9. Square Heart
10. In A Tin Flask
11. A Heart The Size Of A Horse

Encores:
12. A Cry For Love
13. The War Is Over
14. (new song)

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