RECENSIONE: Dagger Moth – Silk Around The Marrow (2016, autoprodotto)

Recensione di Gustavo Tagliaferri

Annichilire, servirsi di poco come di molto per non fare caso a ciò che, all’esterno, è vacuo. Lasciare tutto ad un graduale piacere che non va solo di pari passo con il contatto, quanto con continue influenze che man mano lasciano intuire qualcosa di sempre più ferreo, quasi a voler sviscerare senza colpo ferire le proprie interiora. La morbidezza, sì, ma anche la robustezza, due fattori che incidono pesantemente su un lavoro come questo Silk Around The Marrow, senza che ci si possa trovare di fronte ad un banale caso. La seconda prova in studio di Dagger Moth, monicker dietro il quale vi è Sara Ardizzoni, già Pazi Mine, la si potrebbe definire particolarmente cruciale per una carriera mai stagnante come la sua, sempre caratterizzata da colpi di scena sia riguardanti la singola figura sia collaborazioni situate qua e là. Ed è cruciale proprio perché se P.J. Harvey e Nico, già di felicissimo auspicio nell’opera precedente, non vengono comunque meno come punti di riferimento, il suono concepito guadagna ancora più in personalità, come se ci fosse stato alcun dubbio di sorta del resto, considerata la caratura del soggetto. Nei dieci brani risultanti tanto lieve è l’intento che guida The Sky Was Red, che a suo modo accenna ad una corrente folktronica particolarmente malinconica, e l’apparente solarità di Backbone che viene fascinosamente ostacolata da un grezzo ed industriale incedere quanto proprio alla luce di ciò viene covata una forza che gradualmente si presenta in più aspetti e circostanze, che sia costituita da ritmi scarnificati ed intuizioni ambient rappresentanti il fondo di un’immersione acquatica alla quale gradualmente si abbandona la titletrack o da trip hop sospesi tra reminiscenze lo-fi e sinergie tra echi e dissonanze che costituiscono l’odi et amo, un’oscurità mista a sensazioni eteree, come nel caso di Ovaries, che esca fuori dal mucchio cedendo ad una sconnessione che anima le impennate robotiche di Shadowboxing, in un excursus che finisce per incastrarsi tra dilatate chiose rockeggianti, e mostrando articolazioni a livello compositivo e chitarristico il cui zenith emerge nel dobro elettrificato che mastodonticamente divora l’ambiente circostante, e questi sono i 7/4 e poco più di Birthmark, il tutto con una doverosa attenzione anche all’uso dell’elettronica, come in Dyrhòlaey, che tra riverberi e richiami noise che torneranno prepotentemente in quel di A Kind Of Fire, è imbevuta di Islanda e a mò di effettistica diffonde sensazioni di continua perdizione ben accentuate da una serrata drum machine, secondo un’accentuazione che troverà ulteriore conferma nell’impeto con cui viene sputata fuori come contrapposizione alle atmosfere spettrali in quel di Grow A Shell, mentre Event Horizon, con il suo visionario e surreale spoken word, chiude il cerchio con meticolosità, specialmente alla luce di una firma e di una voce come quella di un maestro delle “altre” sei corde, sua maestà Marc Ribot, la cui relazione l’una con l’altro va oltre il basilare concetto di collaborazione e non lascia dubbi al fatto che ci si trovi di fronte ad un disco decisamente compiuto, ancor più dell’omonimo precedente. Silk Around The Marrow è una promessa ottimamente mantenuta, un talento, quello di Dagger Moth, forse troppo fuori dai soliti canoni per essere compreso appieno nello stivale, e questo è un vero peccato da colmare quanto prima. Ma molto prima.

Dagger Moth – Silk Around The Marrow
(2016, autoprodotto)

1. Ovaries
2. Silk Around The Marrow
3. Shadowboxing
4. Dyrhòlaey
5. The Sky Was Red
6. Grow A Shell
7. Birthmark
8. Backbone
9. A Kind Of Fire
10. Event Horizon

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