LIVE REPORT: MICAH P. HINSON PERFORMING “AND THE OPERA CIRCUIT” @ LOCOMOTIV, BOLOGNA, 04/04/2017

di Massimiliano Speri

Ne è passato di tempo dall’uscita di quel And The Opera Circuit che, dopo il quasi altrettanto ispirato And The Gospel Of Progress e prima della definitiva consacrazione con And The Red Empire Orchestra, proiettò questo scapestrato ragazzo occhialuto nel gotha dei songwriters contemporanei. A fare scalpore contribuì senz’altro la sua reputazione di precoce maudit dal passato fosco, al punto che i più ci misero un po’ ad accorgersi che era anche un autore di razza e un performer come ne nascono pochi in un decennio. Nel frattempo Micah è cresciuto e il suo personaggio si è evoluto insieme a lui, tramutando il teppistello strafottente ma romantico degli esordi in un adorabile sudista old fashioned nel look come nella poetica, più prossimo al country che al folk, alla malinconia che alla disperazione, al whiskey che agli psicofarmaci.

L’eccellenza dell’artista e la problematicità dell’uomo sono comunque sempre andate di pari passo: la prima testimoniata da una sfilza di album ineccepibili sotto tutti i punti di vista, la seconda da una serie di esibizioni divenute proverbiali per la loro sconclusionata imprevedibilità. Il drammatico incidente stradale che, nel 2011, parve la definitiva spallata alla sua stabilità fisica ed emotiva, lo ha portato a diradare sensibilmente l’attività, e le sue apparizioni pubbliche sempre più improbabili hanno fatto diventare insistenti le voci sul possibile, definitivo tracollo di un artista tanto talentuoso quanto difficile da gestire.
Anche solo per questo, l’attesa per il concerto di stasera è spasmodica (al punto che non riesco a prestare che una distratta attenzione al gruppo spalla, gli indie-rockers romagnoli Sunday Morning): mi preme innanzitutto constatare come sta.

micah artwork 2017

Lo vidi a Ferrara nel 2010, un solitario set voce & chitarra, strampalato ma di grande intensità, e lui sembrava in forma: ma era pur sempre prima dell’incidente…C’è poi il fatto che il disco celebrato (ristampato in una lussuosa special edition per il decennale dall’esimia Bronson Produzioni, anche responsabile del tour) fu il mio primo, folgorante contatto con la sua musica, quindi riascoltarlo dal vivo non potrà non riportarmi indietro di qualche anno…

Lui e la band (tutti musicisti italiani, per lo più provenienti dalla scena romana) si materializzano sul palco senza preavviso e quasi di soppiatto, con il dj set ancora in sottofondo e le luci semi-accese, e metà del pubblico a malapena se ne rende conto. Micah, impomatato come un rocker anni’50 e con una Stratocaster a fare le veci dell’acustica omaggiante Woody Guthrie, sembra malfermo: dobbiamo prepararci al peggio? Ma ecco che, dopo due parole di introduzione, vengono sgranati gli accordi lunari di Seems Almost Impossible, seguiti a stretto giro dalle profondità abissali di quella voce inspiegabile, la voce di un bambino invecchiato troppo presto: ogni preoccupazione si polverizza in quell’istante, e a rimanere vivi sono solo dei dolcissimi brividi di piacere, forse anche di commozione. Micah non scoppierà di salute, ma da subito sembra meravigliosamente in grado di tenere il palco, e il contrasto tra la fragilità della figura e la sicurezza dell’esecuzione rende il tutto ancora più emozionante. A confermarlo arriva poco dopo Diggin’ A Grave, murder ballad tra il macabro e lo scanzonato che dimostra la versatilità del cantautore nell’affrontare atmosfere differenti, egregiamente sostenuto dalla band nel suo galoppare folkeggiante. I suoni scarni finora esibiti si fanno più consistenti in una Jackeyed che, seppur priva dei preziosismi orchestrali della versione studio, regge il confronto grazie ad una performance compatta e dinamica.

 

Tutt’altro mood si respira nel lamento straziato di It’s Been So Long, denso di inconsolabile malinconia. Prima di proseguire nella scaletta, Micah inforca una sigaretta nel suo solito bocchino, che di profilo sembra quasi un becco posticcio: la sua sagoma avvolta nel fumo ha qualcosa di iconico, sembra di averla sempre vista da qualche parte, magari pittata con uno stencil su qualche muro metropolitano. Non potrebbe esserci miglior atmosfera per snocciolare una Drift Off To Sleep che è forse il culmine del disco e della serata, asciutta e sussurrata eppure incredibilmente piena, con uno splendido lavoro di violino nel finale. Il pubblico è ipnotizzato, gli applausi scrosciano e Micah sdrammatizza facendoci notare l’assurdità del regolamento che permette di fumare a lui ma non a noi, pur trovandoci tutti nello stesso ambiente: effettivamente…Con Letter To Huntsville la band torna protagonista con i suoi misurati crescendo, prima di sciogliersi nell’infinita delicatezza di una She Don’t Owe Me davvero da pelle d’oca, con Micah ancora una volta impeccabile nell’accarezzare la chitarra. Una piccola spruzzata di energia su My Time Wasted e poi ci si raccoglie di nuovo nell’acquerello da camera di Little Boys Dream, dominata dal violino. L’epica You’re Only Lonely è forse il momento più energico del concerto, con un’impennata full band nel finale che non può lasciare indifferenti. Non potrebbe essere più diversa la conclusiva Don’t Leave Me Now, torch song quasi religiosa nella sua sofferta implorazione di perdono, sporcata poco prima di spegnersi dai disturbi rumoristici della chitarra di Micah, che si congeda così da una platea stordita dalla quantità di Bellezza che le è appena stata somministrata.
Conoscendo il caratterino del personaggio i bis non sono da dare per scontati, e invece dopo una breve pausa eccoli sul palco per un’ultima carrellata di canzoni, a partire da una Beneath The Rose che manda in visibilio il pubblico, cui seguono Close Your Eyes e As You Can See (tutte tratte dal primo album, tutte grandiose).

Micah presenta la band, chiede un attimo per ritrovare un plettro smarrito e poi ci saluta con due cartoline dall’ultimo, pregevolissimo And The Nothing: una On The Way Home (To Abilene) in cui sembra davvero di respirare la polvere del Texas, e in chiusura il garage-punk sguaiato di How Are You Just A Dream?, in cui veniamo invitati a battere il tempo con le mani per creare un “Phil Spector-like rhythm”. Poche volte sono stato così contento di ritrovare qualcuno: il sollievo che ho provato è stato l’equivalente di una buona notizia da un parente o un amico malato. Al di là di questa nota affettuosa, la maturazione di Micah come showman è innegabile, soprattutto nell’aver ridotto all’asso la sua loquacità tra un pezzo e l’altro. Anche i tic ossessivi alla Glenn Gould che pare non riuscire a scrollarsi di dosso, in altre occasioni così esasperanti, in questo nuovo contesto risultano simpatici, se non deliziosi. Mi sono poi piaciuti moltissimo i suoni, con sia la voce che la chitarra ben cariche di un riverbero dal sapore vintage, perfetto per spazializzare le accartocciate performance del nostro eroe.

Me ne torno a casa soddisfatto e rilassato: dopo aver constatato la miracolosa rinascita del caro Micah posso finalmente dormire tranquillo, sperando non mi faccia più stare in pensiero…

Setlist:
1. Seems Almost Impossible
2. Diggin’ A Grave
3. Jackeyed
4. It’s Been So Long
5. Drift Off To Sleep
6. Letter To Huntsville
7. She Don’t Owe Me
8. My Time Wasted
9. Little Boys Dream
10. You’re Only Lonely
11. Don’t Leave Me Now

Encore:
12. Beneath The Rose
13. Close Your Eyes
14. As You Can See
15. On The Way Home (To Abilene)
16. How Are You Just a Dream?

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