RECENSIONE: Amerigo Verardi – Hippie Dixit (2016, The Prisoner Records)

Recensione di Gustavo Tagliaferri

Alla luce di certi dischi, in primis, la necessità di andare controcorrente. Guardare avanti e fare del presente un punto di arrivo, ma anche un nuovo inizio di qualcosa di ulteriormente produttivo, nel momento in cui si è indiscussi protagonisti di uno scenario riconducibile ad una spiaggia le cui onde del mare solcano la riva portando con sé sapori sempre diversi e colmi di fascino, ma anche ad un deserto avente in comune quella sabbia, un deserto dove l’acqua non è, fortunatamente, mera utopia. Andare oltre i punti fermi tipici di certa gioventù, immergersi davvero in quel mare ove realizzarsi in maniera definitiva, dopo una carriera fatta di Allison Run, Lula, Lotus e collaborazioni in duo. Amerigo Verardi non è nato per seguire le mode e forse neanche per crearle: è un outsider da sempre mossosi con compostezza e meticolosità, e “Hippie Dixit”, ritorno ai full length a proprio nome dopo i ’90 trascorsi tra “Morgan” e “Cremlino e Coca” e la collaborazione con Marco Ancona di “Il Diavolo Sta Nei Dettagli”, è un’opera che, nei due atti che la costituiscono, può essere tanto accostabile ad un concept album quanto ad una macro-suite inglobante storie così vicine eppure così lontane. Non elementare “musica d’autore”, quanto concezione fuori contesto, contrariamente a quel che passa il convento, di un linguaggio che, a voler azzardare, in più occasioni sembra voler coadiuvare l’Edoardo Bennato maggiormente impegnato con il Peter Gabriel da “Passion” in poi. O, semplicemente, un linguaggio che è principalmente di Verardi e basta: vi è il fautore di canti locale dall’ossatura folk ed infestati da demoni nuovamente blues, come la storia, in continua gestazione, di Terre promesse, la cui adeguata controparte svela un’esperienza progressive fusa con sapori francesi e le radici di Verardi, quando a risuonare è una ballata, l’unica del lotto, quale Verità, salvo poi lasciare il passo ad una maggiore intimità, con conseguente training autogeno, grazie a Le cose non girano più, o ad una spensieratezza che, in forma insolitamente pop, insorge con Innocenza; ma vi è anche l’artista che nell’accennare una jam lo-fi preferisce soffocarla compiendo un passaggio brusco verso la world music, linguaggio di ipotetici tuareg il cui cammino, che inizia con i violini tzigani, intervallati da sbronze blues, di Viaggi di Mario e finisce con il visionario spoken word di Korinthos, porta con sé un multiculturalismo che coinvolge tanto la musica quanto le migrazioni, forzate e volontarie, ricordando come, checchè se ne dica, la tanto decantata “patria” non sia altro che il mondo, in una missione di cui si fa capo anche l’India facente da fulcro ideale attraverso cui raggiungere l’intimità e sviluppare una forma di spiritualità che, tra percussioni sommesse, prende forma in Cisternino Bhole Baba Dhuni; dulcis in fundo, vi è il Verardi mnemonico, quello delle galvanizzanti scosse elettriche ed elettroniche che implodono nell’esperienza etnica de L’uomo di Tangeri, excursus i cui breakbeats gradualmente e prepotentemente sommergono richiami mistici e popolani, lasciando poi spazio ad una chiosa fatta di arpeggi dreamy, annacquatamente shoegaze, forse vagamente balearic, e che a loro volta tornano mescolandosi tra l’Africa e l’Irlanda, la scuola wave e gli ardori zingareschi, in un insolito quanto fascinoso collante che da Pietre al collo arriva all’avvento di un rock mediterraneo sotto forma di studio, analisi e conseguente invettiva storica, quella che irradia e devasta Due Sicilie donando nuova vita alla relativa tradizione, quello stesso rock mediterraneo che furtivamente, tra le percussioni, si intrufola nell’incedere nervoso e distorto di A me non basta, secondo una funzione che coinvolge anche quella scuola wave nuovamente sembra si vada a parlare nelle chitarre e nei bassi che, come ectoplasmi, irrompono in Chiarezza, con annesse chiose turbinose ed eteree, fino alla girandola visionaria, dalle atmosfere beffardamente in contrasto, su cui si fonda Brindisi (Ai terminali della Via Appia), odi et amo alla propria città natìa occhieggiante persino a certa psichedelia sublimata e filtrata. Un sogno che si avvera, basato su una voglia di osare, da parte del nostro, che non pone dubbi a riguardo: “Hippie Dixit” è un capolavoro, il disco che tanti artisti oggigiorno, forse, non sono più in grado di fare. Ma in particolare la comprovata dimostrazione di come la freschezza di idee non sia necessariamente prerogativa di una fascia giovane d’età, soprattutto quando non ci si trova necessariamente sotto il proprio cono d’ombra. Amerigo Verardi, nel preferire l’attenzione alla celerità, è giusto che sia così come è, oltre che necessario che venga scoperto e riscoperto dai novellini.

14853158_329116944123569_6375529911125100141_oAmerigo Verardi – Hippie Dixit
(2016, The Prisoner Records)

CD 1
1. L’uomo di Tangeri
2. Terre promesse
3. Pietre al collo
4. Due Sicilie
5. Cisternino Bhole Baba Dhuni
6. A piedi nudi
7. Brindisi (Ai terminali della via Appia)

CD 2
1. Viaggi di Mario
2. Korinthos
3. Chiarezza
4. Verità
5. Innocenza
6. Le cose non girano più
7. A me non basta

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