LE PAROLE DEL LUNEDÌ: CAPITOLO 2

“SOTTO LO STESSO FRAGILE CIELO”

(Via delle Azalee n. 7)

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Anna – interno 4

(il miele e il veleno)

di Luigina Baschetti

RACCONTO 2.1

Ferma all’incrocio, mentre attendeva che il semaforo diventasse verde, guardava fuori dal finestrino le immagini che le giungevano dalla strada, automobili, alberi, negozi, abitazioni. Il suo sguardo saliva verso l’alto e si soffermava sulle finestre degli appartamenti. Vedeva scorci di arredo all’interno, cucine illuminate, camere in penombra, librerie. Per un attimo le sembrò di aver colto un frammento della vita di qualcuno là dentro e pensò che all’interno della finestra accanto e in quella del piano di sopra, c’erano altre vite, persone che forse non si conoscevano tra loro, oppure che si amavano o che si odiavano.

Si ritrovava spesso a pensare alle infinite strade che le vite possono prendere, guidate dal caso o dal destino. Alcune possono scorrere parallele tra loro, senza che s’incontrino mai. A volte si sfiorano appena, creando opportunità che non vengono colte. Altre volte si attraversano, con effetti devastanti, lasciando ferite che non rimargineranno. Qualche volta si intrecciano e diventano una cosa sola, ed è un miracolo, se credi in Dio, altrimenti la consideri una fortuna.

Si ritrovò sotto casa senza neanche sapere come. Parcheggiò e aprì il cancello buttando un’occhiata su’ al secondo piano, dove abitava. Tutto buio. Strano, alle otto di sera, dovrebbero essere tutti a casa.

L’angoscia la prese alla gola, e il cuore cominciò a batterle forte. L’ascensore era rotto, l’aveva dimenticato. Già dalla mattina, quando era uscita di casa per andare al lavoro, c’era un cartello con la scritta “Fuori servizio”. Ancora non l’avevano riparato. Non importa, erano soltanto due piani. Il respiro, già in affanno per l’ansia, quando arrivò era ancora più corto.

Appena aprì la porta, senti l’odore. Un misto di fumo, alcol, vomito, sudore, ma forse non era nulla di tutto ciò, era soltanto un’associazione mentale di tutte le cose che le disturbavano, che la infastidivano, che le davano nausea, tutto ciò che riteneva repellente e disgustoso. 

Era l’odore della rabbia, che lei conosceva bene perché l’aveva già incontrata. 

Spinse la porta in avanti lentamente, sperando di essersi sbagliata, e cominciò ad avanzare con cautela, nella penombra del corridoio, sbirciando verso la luce che proveniva dal salotto. 

Non fece in tempo a fare il secondo passo che la rabbia si abbatté su di lei. 

La raggiunse in piena faccia con la forma di un pugno chiuso che le colpì l’occhio destro e la spinse indietro, mandandola a sbattere contro lo stipite della porta. Era l’ultima cosa che ricordava. 

Quando si risvegliò c’era accanto a lei un volto sconosciuto che le vomitava addosso parole. 

Quante volte è successo?” 

Quando, in quali occasioni?” 

C’era un motivo? Lei aveva tardato a rientrare in casa, senza avvertire?” 

L’ha mai minacciata?” 

Avete armi in casa?” 

I bambini erano presenti?” 

Il terrore squarciò la mente di Anna. I bambini! Dov’erano i bambini?! 

Wanda capì subito, prima ancora che Anna formulasse la domanda, spuntò dalla schiena dello sconosciuto e la rassicurò. 

I bambini sono a casa di sua sorella, l’ho avvertita io, dopo aver chiamato la polizia”. 

Non dovevi! Lo sai che non voglio che mia sorella sappia!” 

Urlò contro Wanda ma si pentì subito, perché lo sforzo le provocò una fitta atroce alla testa e le tolse immediatamente le forze che credeva di aver ritrovato. E si pentì anche perché Wanda non se lo meritava. 

Era l’unica persona che sapeva come stavano le cose, che aveva raccolto più d’una volta il suo sfogo e che aveva asciugato le sue lacrime, quelle che non era proprio riuscita ad ingoiare.

Perché di solito le ingoiava, e poi sorrideva, come se non fosse accaduto nulla. 

Copriva i lividi con il fondotinta, metteva gli occhiali da sole, spettinava i capelli e li acconciava in modo che i ricci ricadessero sulla fronte, come per vezzo, a nascondere le tracce di un segno d’amore. 

Perché lei era convinta che fosse amore, quello. 

Ogni volta che succedeva, infatti, c’era una ragione. Lui non era un violento. E l’amava, di questo Anna era certa. 

RACCONTO 2.2Era gentile quando l’aveva conosciuto. Riservato e di poche parole, si autodefiniva riflessivo, uno che non parla a vanvera, tanto per parlare, che dice poche cose e solo al momento giusto, quando serve. 

Questo per giustificare il fatto che non amava molto conversare e che spesso si isolava, e criticava quelli che parlano, parlano… 

Anna s’innamorò di lui proprio perché era così, uno serio e tranquillo. Affidabile, pensò. 

Quando la guardava, mentre facevano sesso, i suoi occhi sembravo tristi, imploranti, come a dire: “Ti prego, non mi lasciare mai, restiamo per sempre così. Senza di te sarei perso”. 

Poi, quando Anna gli diceva: “Quanto sei bello! mi rendi così felice, cos’ho fatto per meritare tutto questo?” lui sorrideva e allora i suoi occhi si allungavano e diventavano fessure. Soltanto adesso Anna cominciava a chiedersi se dietro quelle fessure ci fosse già un nemico che non aveva mai intravisto prima. 

A volte vedeva intorno a lui un’ombra, una specie di alone grigio che offuscava la sua splendida figura. Pensava che la sua fosse una sorta di timidezza, di insicurezza. 

Più tardi scoprì che non era affatto timido, anzi, in qualche occasione diventava inaspettatamente risoluto e critico, manifestando giudizi che erano praticamente delle sentenze senza possibilità di appello. 

Questi atteggiamenti sorpresero molto Anna che, col tempo, cominciò a chiedersi chi fosse veramente. 

All’inizio il loro rapporto fu una storia d’amore travolgente. Quel ragazzo silenzioso la ricopriva di baci e di carezze e faceva tremare il suo cuore ad ogni sguardo. Quando si lasciavano, dopo ore ed ore di sesso sfrenato, lui le diceva semplicemente: 

Torni?” come se avesse bisogno di essere rassicurato. 

Certo. Ma tu vuoi che torni?” domandava a sua volta Anna. 

Quando? Domani?” incalzava lui. 

Si, domani”. E lo lasciava a malincuore con un lungo interminabile bacio. 

Lui non la chiamava mai, la contattava solo con telegrafici messaggi sul telefono, se necessario. 

Era sempre lei a cercarlo e lui rispondeva, garbatamente, ma senza mostrare particolare entusiasmo. 

È la sua natura, si ripeteva Anna, che avrebbe voluto una maggiore partecipazione e anche qualche iniziativa spontanea. Ma lui le disse, una volta per tutte, un po’ seccato dell’insistenza: 

Sono fatto così. Ho un brutto carattere, lo so. Me lo dicono tutti. Parlo poco e non credo sia necessario stare sempre a ripetere le stesse cose. Se hai capito che ti voglio bene ti devi accontentare di questo. Se tu mi vorrai io ci sarò, tutte le volte, ma non aspettarti che sia io a cercarti: non lo farò, non lo faccio mai, con nessuno”. 

Se ne innamorò perdutamente, chissà perché. Cosa c’è di così promettente in una frase come quella? Non doveva essere un segnale di allarme? Non avrebbe dovuto capire che c’era in lui qualcosa di strano?  

Quando le propose di vivere insieme, a casa sua, Anna quasi non riusciva a crederci. Adorava quell’appartamento, in quella palazzina liberty, con quel fascino delle cose antiche, dove il tempo sembrava essersi fermato un secolo prima.

Lui però mise subito i paletti: “Nel mio studio non devi entrare neanche per spolverare, ci penso io. La cucina deve essere sempre in ordine, detesto la sporcizia, i piatti nel lavandino e le macchie di caffè sul piano cottura. Il bagno lo puliamo a turno. La spesa se vuoi puoi farla tu, non sono esigente, mangio quello che c’è. Non toccare le mie cose, io non tocco le tue. Adesso vieni qui che ti faccio vedere quanto ti voglio bene”. 

Facevano l’amore, per ore, dimenticando tutto e tutti, abbandonandosi completamente ai sensi, ai giochi erotici, alla fantasia più sfrenata. A volte, le cose che facevano erano così complicate che dovevano sospendere per fare il punto della situazione, e allora scoppiavano a ridere come due scemi. Poi aprivano il frigo e mangiavano quello che trovavano, oppure prendevano un caffè, si raccontavano un po’ di cazzate e quindi ricominciavano. Era sorprendente come riuscisse ad essere così dolce, così delicato, mentre facevano l’amore. Non era mai volgare e anche quando desiderava fare qualcosa di speciale chiedeva “per favore, mi faresti un …”.

Quand’è stato che aveva cominciato a mostrare la sua vera natura? Faceva fatica a ricordarlo. 

Forse è stato quella domenica mattina che, dopo aver fatto sesso per un paio d’ore, non riusciva più ad accontentarla. Succede. Anna non ci fece molto caso. Si era fatto tardi e lei doveva tornare a casa sua, aveva un impegno nel pomeriggio e non voleva fare tardi. 

Forse andò proprio così. Forse perché lei lo lasciò lì, sul letto, senza tanti complimenti e se ne andò in bagno a lavarsi e a truccarsi. Quando tornò da lui, si rese conto che c’era qualcosa che non andava. 

Era rimasto lì nel letto, immobile. Aveva un asciugamano sul viso e quando lei cercò di levarglielo, lui glielo impedì. Non ci fu’ verso. Anna non capiva cosa stesse succedendo. All’inizio pensò che fosse un gioco e tentò di nuovo di strappargli di dosso quello stupido asciugamano ma era come se lui non volesse farsi vedere in viso. Sotto l’asciugamano il respiro era corto e affannato e lungo i fianchi le braccia erano tese e i pugni chiusi e stretti, come se stesse per esplodere. 

Anna non comprendeva, ma capì che era meglio non insistere. Finì di prepararsi e se ne andò salutandolo a malapena dicendogli: “Quando ti passa fatti sentire”. 

Farsi sentire non era la sua specialità.

Trascorsero due settimane, interminabili per Anna che alla fine cominciò a chiamarlo. Dopo vari inutili tentativi lui rispose: “Insomma, che vuoi? La voce secca, ferma, decisa, non ammetteva ragioni e non tradiva emozioni.  “Se non ti rispondo significa che non posso. Pensi di essere in cima ai miei pensieri? Chi credi di essere?” 

Quello sarebbe stato il momento giusto per fuggire. Avrebbe dovuto capire, Anna, che un uomo così, che non chiede niente e niente concede, non è fatto per condividere la vita con qualcuno. Ma ormai era troppo tardi, non poteva più a fare a meno di lui.

Lui accettò di vederla e ricominciarono a frequentarsi come prima, senza mai parlare dell’accaduto.

Nonostante queste premesse sconcertanti, la loro relazione continuò, perché si amavano, questo è certo, e poi, con l’arrivo dei bambini, diventarono una famiglia, con alti e bassi, come tante altre.

Col tempo, quegli strani, improvvisi, ingiustificati, cambiamenti di umore, diventarono sempre più frequenti e assunsero toni più inquietanti.  

Come quella volta che, dopo una discussione cui seguirono giorni e giorni di mutismo e di indifferenza totale, lui le disse che all’educazione di bambini doveva pensare lei perché lui non era in grado. Li amava ma non avrebbe saputo insegnare loro a vivere, a comportarsi, perché lui stesso ancora non aveva imparato a comportarsi e a controllarsi, non sempre. Le aveva anche chiesto di proteggerli da tutti, anche dal loro stesso padre, perché non era certo che sarebbero stati al sicuro. 

Soltanto molto tempo dopo comprese il significato di quelle oscure parole.

Lei chi è? Cosa vuole da me? Chi l’ha chiamata? Se ne vada. Non ho nulla da dirle. Sono caduta e ho sbattuto contro la porta. Mi succede spesso. Dovrò farmi visitare. Le prometto che mi farò visitare. Adesso se ne vada per piacere.”

Anna spinse verso la porta quello sconosciuto vestito da poliziotto che, prima di uscire, le disse che suo marito era stato portato in questura per essere interrogato. La testimonianza della portinaia sui continui, ripetuti episodi di violenza domestica, non erano sufficienti per trattenerlo, perciò la sua denuncia era fondamentale per l’incriminazione. “Ci pensi signora, l’aspettiamo in questura”.

Quando riuscì a restare sola, dopo aver mandato a casa, riluttante, anche Wanda, si lasciò andare ad un lungo, interminabile, straziante, pianto.

Piangeva e si guardava attorno. Si rivedeva in ogni angolo di quella casa che era stata un luogo incantato, un giorno, tanto tempo prima. Ricordava la felicità che provava ogni volta che lui le diceva al telefono “Prendi un permesso e vieni a casa presto stasera. Ti aspetto”, il fremito che la percorreva tutta mentre, durante il tragitto, assaporava il piacere che avrebbe provato di lì a poco, quando lui l’avrebbe spogliata, già sulla porta, per la voglia di toccarla, e di sentirla sua.

Non riusciva a credere che fosse ancora la stessa persona quella che ora, sulla soglia della stessa porta, a distanza di qualche anno, la accoglieva con un pugno in piena faccia perché sospettava che il ritardo fosse dovuto ad un tradimento, o forse solo perché riteneva che “ritardo” volesse dire venire meno ai patti, alle regole, alle sue regole.

RACCONTO 2.3

Si asciugò le lacrime, si accese una sigaretta e si avvicinò alla finestra.

Guardava nel vuoto, assorta nei suoi pensieri e soltanto dopo un po’ il mondo, là fuori cominciò a manifestarsi.

I lampioni, con il capo rivolto all’ingiù, lanciavano verso il basso un cono di luce giallastra ed illuminavano, poco alla volta immagini, forme, di cose, di persone. Uscivano da buio, come se si materializzassero in quel momento.

Un ragazzo, avvolto da una felpa con il cappuccio in testa, camminava lungo il marciapiede di fronte alla sua abitazione. Camminava e guardava il cellulare, come fanno in molti ormai. Nell’altra mano teneva al guinzaglio un cagnolino che trotterellava dietro di lui e che ogni due metri si fermava a regalare un po’ della sua pipì al muretto dei giardini pubblici.

Un’auto, parcheggiata più o meno nello stesso punto dov’erano apparsi il ragazzo e il cane, prese vita quando si accesero i fari. All’interno una donna con i capelli biondi che le arrivano appena sulle spalle si voltò verso la strada nel momento stesso in cui si animò il lampeggiatore di sinistra. Stava per partire e si accertava che non arrivasse nessuno. Si era voltata verso la strada, ma prima di avviarsi guardò verso la palazzina di fronte, quella in cui abitava Anna. Non partì subito. Spostò lo sguardo in alto e si fermò a fissare una donna affacciata alla finestra del secondo piano che guardava giù.

Forse si stava facendo delle domande sulle persone che abitavano in quell’appartamento, sulla loro vita, forse si chiedeva se erano felici.

Avranno avuto la stessa età. Erano bionde tutte e due. E si guardavano.

Vai, torna a casa, sbrigati, non perdere tempo, farai tardi!” avrebbe voluto gridare Anna “Oppure scappa, salvati!”

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