LE PAROLE DEL LUNEDÌ: CAPITOLO 3

“SOTTO LO STESSO FRAGILE CIELO”

(Via delle Azalee n. 7)

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Chiara – Interno 6 ed Emma – interno 9

(due facce della stessa medaglia)

di Luigina Baschetti

Chiara ed Emma1

Cazzo, cazzo, CAZZO!” Urlò la ragazza.

E cominciò a prendere a pugni la porta d’ingresso come fosse colpa della porta, come se questo potesse rimediare al fatto che aveva chiuso la porta lasciando all’interno la borsa con le chiavi di casa, le chiavi della macchina, la patente, il portafoglio, il cellulare e tutto il mondo che una donna riesce a mettere in una borsa.

Cazzo!”, ripeté, con meno forza, meno rabbia e più rassegnazione. E si lasciò andare. Si girò e, spalle alla porta, si lasciò scivolare fino a sedersi a terra. E cominciò a piangere.

Cazzo! Pensava Emma mentre saliva le scale con quattro buste cariche di spesa, due per lato, più la borsa con cui usciva abitualmente, messa a tracolla per avere le mani libere, che pesava più di una busta carica di spesa.

Emma non avrebbe mai detto quella parola ad alta voce, perché aveva avuto un’educazione che le impediva di dire parolacce, ma lo pensava a volte, e oggi, CAZZO, se lo pensava!

Questo cazzo di ascensore si è rotto nuovamente, pensava Emma, ed è stato riparato soltanto la settimana scorsa.

È lo scotto da pagare quando si abita in uno stabile che ha cento anni, signora mia” le diceva la portinaia quando Emma si lamentava. “Una palazzina d’epoca purtroppo ha i suoi svantaggi. È bella, signorile, ma gli impianti sono vecchi, come noi.” E faceva un sorrisino ironico, e ammiccava, per giunta.

Ma parla per te, cicciona! Pensava Emma, ma lo pensava soltanto, e poi rispondeva:

Eh, già, cara Wanda, ha proprio ragione, ci vuole pazienza”.

Emma era cresciuta in un ambiente piuttosto rigido dove la disciplina, il senso del dovere, l’educazione, la cultura e le buone maniere avevano il loro peso. Il padre era stato generale di corpo d’armata nell’esercito militare e la madre aveva lavorato in gioventù nella redazione di un giornale di provincia e poi aveva lasciato l’attività per seguire il marito nelle diverse destinazioni che gli assegnavano, che cambiavano mediamente ogni 5 anni. Emma aveva vissuto quindi in città diverse e anche in nazioni diverse, quando al padre era stata affidata una missione all’estero, ma questo non le aveva creato alcun disagio, anzi, aveva affrontato ogni volta il trasferimento come una sorta di avventura. Le era sempre piaciuto imparare a conoscere luoghi e persone diverse.

Ci fosse stata Wanda in guardiola, l’avrebbe aiutata a portare le borse, ma dalle 13 alle 15, per regolamento, il portiere ha la pausa pranzo e quindi si era fatta coraggio e si era lanciata su per le scale.

Forse lo fece con troppo impeto, pensando che l’allenamento in palestra e la sua buona prestanza fisica le avrebbero permesso di affrontare facilmente i tre piani di scale che l’aspettavano, con tutto quel peso addosso.

Quando arrivò al secondo piano vide la ragazza accucciata a terra con le mani tra i capelli e la fronte sulle ginocchia. Forse si sarebbe fermata comunque, perché era quasi senza fiato e le mani sembravano volersi staccare dai polsi, ma la vista della ragazza le diede un motivo in più per fare una pausa.

Posò le borse, si prese qualche secondo per ritrovare il fiato e poi chiese: “Tutto bene cara? Che succede? Posso fare qualcosa?”

Chiara alzò il viso e guardò l’elegante signora che si avvicinava verso di lei e le urlò addosso:

Bene un cazzo! Mi sono chiusa fuori casa, sono senza telefono, senza soldi, senza macchina, sono ritardo per l’audizione, ma in fondo chi sene frega dell’audizione, tanto non mi avrebbero presa. Beh, si, forse potrebbe anche andare peggio. Potrebbe venirmi un cancro!”

Emma stava per sorridere, perché la rabbia e lo sfogo di quella ragazza erano quasi divertenti, ma si trattenne pensando che lei di sicuro non si stava divertendo e forse era meglio non irritarla ulteriormente.

Se mi aiuta a portare a casa la spesa potrà telefonare a qualcuno, le presto un po’ di soldi per il taxi, insomma, potremmo trovare una soluzione. Che ne dice?”

Chiara la guardò e cercò di ricordare chi fosse. Ah, si, era quella che abita al quarto piano, forse, o al terzo? Boh. L’aveva vista qualche volta, con quell’aria da “ce l’ho solo io”. Salutava sempre, tutta educata, con un leggero sorriso di circostanza e un cenno del capo, come fosse la regina d’Inghilterra. Mi è stata sempre sul cazzo, ed ora mi chiede di portarle le buste della spesa. Ma vaffanculo, pensò Chiara.

E stava per dirglielo veramente vaffanculo quando si rese conto che, forse, le faceva comodo fare una telefonata e anche prendere i soldi per il taxi. Magari faceva ancora in tempo per l’audizione.

Chiara ed Emma2

Aveva lavorato tanto per prepararsi, aveva ascoltato e studiato attentamente le musiche, aveva provato i passi centinaia di volte. Senza considerare quanto le era costato chiedere a quello stronzo di Walter di intercedere per lei con Silvia, quella che si occupava del casting dello spettacolo, perché la convocasse per il provino. Lo sapeva bene che Walter, poi, le avrebbe presentato il conto. Le avrebbe chiesto di uscire, le avrebbe messo le mani addosso e tutto il resto. E questo anche se non l’avessero presa, perché altrimenti non ci sarebbero state altre occasioni. È così che funziona. Si era sempre rifiutata di accettare questa “regola” e infatti, dopo un anno di accademia, lei era l’unica che ancora non aveva mai lavorato. E nessuno ci credeva che era perché lei non l’aveva mai data a quel porco di Walter. Dicevano che non lavorava perché era antipatica a tutti, perché aveva un brutto carattere e perché girava voce che portasse sfiga.

Questa volta però aveva deciso di cedere, perché se non fosse riuscita a fare quello spettacolo, avrebbe mollato tutto e sarebbe tornata a casa.

A casa. Se si poteva chiamare casa un posto dove non c’era mai nessuno, dove il frigo urlava per la fame, dove niente era al posto in cui doveva essere, dove faceva sempre freddo, dove luci e ombre si confondevano e i ricordi si nascondevano sotto al tappeto per non essere visti.

Che peccato, pensò Emma. È una ragazza bellissima, con un corpo così potrebbe fare la modella, ma si concia in un modo… con i capelli metà rasati e metà lunghi, di colore viola. Come ci si può tingere i capelli di viola! E l’abbigliamento? Voglio essere buona, definiamolo solo discutibile, come del resto il trucco, così pesante, scuro, marcato che la fa sembrare proprio volgare.

Cazzo, cazzo, CAZZO!” Urlò Chiara all’improvviso.

Decisamente volgare, pensò Emma.

Che succede ora, cara?” Le chiese dolcemente.

Non ho l’indirizzo, non me lo ricordo. È sul cellulare, che è nella borsa, che è rimasta sul pavimento, dietro questa cazzo di porta!”. E scoppiò a piangere.

Ecco, ora sembrava una bambina. Tutta la sua aggressività se ne stava andando via, si scioglieva, insieme al mascara che le scivolava sulle guance trasformando la sua faccia in una maschera grottesca.

Venga a casa mia signorina, le preparo un tè e poi vediamo cosa si può fare.”

Chiara si asciugò la faccia con il dorso della mano, trascinando così il mascara su tutta la faccia, poi si alzò di scatto, prese le borse della spesa di Emma e si avviò con passo deciso verso le scale.

Grazie cara per aver accettato il mio invito” disse Emma mentre la guardava scomparire su per le scale. E s’incamminò dietro di lei.

A volte Emma pensava che le sarebbe piaciuto avere una figlia ma la sorte o il destino, o Dio, qualunque cosa decida per noi, aveva scelto per lei una vita diversa, senza una famiglia.

Era felice, almeno così credeva. Aveva viaggiato molto, conosciuto tanta gente, frequentava salotti letterari, andava a teatro, visitava musei e mostre fotografiche, giocava a bridge e organizzava cene molto apprezzate dai suoi amici. Aveva una vita piena ma era consapevole che questo non era abbastanza. Una famiglia è un’altra cosa.

Pensava spesso a coloro che, diversamente da lei, vivono soltanto per la famiglia. Non escono mai, non viaggiano, non conoscono scrittori, musicisti, pittori, eppure sono felici, appagati.

Si chiedeva a volte che tipo di vita sarebbe stata la sua se si fosse sposata e avesse avuto dei figli.

Mentre si accingeva a salire le scale pensò che avrebbe potuto capitarle una figlia come Chiara e le vennero i brividi.

Ferma al piano di sopra, con le buste della spesa in mano che cominciavano a pesarle, Chiara gridò: “A che piano abiti? Non me lo ricordo” e intanto pensava che se avesse avuto una madre come quella ci sarebbe stato da incazzarsi ogni giorno, anzi ogni momento. Sicuramente le avrebbe rotto le palle per l’abbigliamento e per il trucco. Non le era sfuggita l’espressione di disapprovazione nel suo sguardo non appena l’aveva vista, come a dire “ma come va in giro questa qui?” Non che le importasse, anzi, a pensarci bene, sarebbe stato divertente scandalizzarla con atteggiamenti che lei certamente avrebbe trovato riprovevoli.

Chiara ed Emma3

Ma perché mi dà del tu? Tutti uguali questi ragazzi, ti danno del tu senza aver avuto il permesso di farlo. Ma che razza di educazione hanno ricevuto?” pensava Emma, che si riteneva una donna moderna, di larghe vedute, ma l’educazione è un’atra cosa, non c’entra con l’essere al passo coi tempi, è una questione di buone maniere e di rispetto.

Sono all’interno 9, proprio sopra di lei” rispose Emma, portando la voce, “eccomi, sto arrivando”.

Appena varcò la soglia di casa Chiara abbandonò le buste con la spesa nel mezzo del soggiorno e si gettò sul divano appoggiando i piedi, corredati di anfibi che non puliva da quando li aveva comprati, sul tavolinetto antistante, ignorando il fatto che lo stesso aveva un ripiano di cristallo su cui erano graziosamente disposti centrini bianchissimi e statuette di porcellana che, per quanto ne sapeva, potevano essere preziose e delicatissime.

Emma tremò, ma non le disse nulla. Pensava che la ragazza era già abbastanza provata e nervosa ed era meglio che si sentisse a suo agio.

Si chiese però se l’abitudine poggiare i piedi sul tavolino del salotto senza togliersi le scarpe fosse comune a tutti i ragazzi, di qualsiasi estrazione sociale, oppure una prerogativa di questa specifica ragazza. Si rese conto di non sapere molto sul comportamento dei giovani.

Le preparo subito il tè” disse Emma mentre si avviava verso la cucina.

Dov’è il computer? Ho bisogno del computer per cercare il numero dell’Accademia e farmi dare l’indirizzo del posto dove stanno facendo le audizioni” domandò Chiara senza tanti complimenti.

Il mio computer è rotto da due mesi. Quando lo accendo lo schermo è tutto blu, devo aver combinato qualche pasticcio, sono un disastro in queste cose” rispose Emma.

Allora dammi il cellulare, lo cerco da lì”. Quella di Chiara non era propriamente una cortese richiesta.

Emma rovistò nella borsa con una punta di apprensione perché ogni volta che cercava il telefono non la trovava mai. Trovava le chiavi di casa, il portafoglio, la trousse del trucco, ma non trovava il telefono. Quando cercava il portafoglio, trovava il telefono, le chiavi di casa, la trousse del trucco ma non trovava il portafoglio. Ma perché succede sempre così? Comunque, alla fine lo trovò e lo consegnò a Chiara che quasi glielo strappò di mano, lo guardò e disse: “E che è un telefono questo? È del secolo scorso, che me ne faccio? non c’è internet su questo cazzo di telefono! Ma come vivi?” E si lasciò andare pesantemente sul divano in preda alla disperazione.

Emma usava il telefono per telefonare e questo le bastava. Non voleva diventare come quelle persone che vivono ogni momento della giornata connesse ad internet, che senza “la rete” si sentono perse, come Chiara in quel momento, ed era orgogliosa del fatto che lei riusciva a trovare sempre una soluzione ai problemi anche senza ricorrere al signor Internet.

Ora vado da Andrea, il mio vicino, è un ragazzo delizioso, a quest’ora è sicuramente in casa, mi dispiace un po’ disturbarlo durante la sua pausa pranzo, ma gli spiegherò la situazione e capirà, ne sono sicura. Ci presterà il suo telefono”

A Chiara non era molto simpatico Andrea.

È delizioso – diceva tra sé, facendo il verso ad Emma – è delizioso come lo sono tutti i gay, gentili, smielati, chiacchieroni e rompiscatole. Quando ti incontra attacca sempre un pippone e non ti molla più. Io non ci andrei mai a chiedere al vicino di prestarmi il telefono oppure di usare il suo PC, però se ci va lei sono fatti suoi, la faccia ce la mette lei”.

Mentre Emma era dal vicino, Chiara si guardò attorno e solo allora si rese conto di quanto quell’appartamento, teoricamente identico al suo, apparisse in realtà completamente diverso. Tipologia, superficie e disposizione delle stanze erano le stesse di casa sua, eppure tutto era diverso. Beh, certamente, i mobili facevano la differenza, i tappeti, i quadri d’autore e tutti quei libri… ma quanti libri c’erano in quella casa! Ma c’era di più di questo, qualcos’altro nell’insieme, che le ricordava uno dei suoi movimenti musicali preferiti, qualcosa di armonico, di morbido, di caldo. Ecco, era calore.

La sua mente mise a confronto tutto quello che vedeva con la sua abitazione del piano sottostante, che per lei era soltanto un posto dove dormire, dove fare i suoi esercizi quotidiani e provare i passi di danza che le assegnavano i suoi insegnanti.

La casa apparteneva a sua nonna per parte di padre, che al momento era stata parcheggiata dai figli in un ospizio, anche se loro preferivano l’espressione “residenza per anziani”. Vabbè. Mentre i figli di sua nonna, che poi erano i sui zii, litigavano tra di loro per l’eredità prima ancora che lei morisse, le era stato concesso di abitare lì fino al termine degli studi e questa era stata un gran botta di culo, così non doveva pagare un affitto.

Probabilmente lo avevano fatto perché provavano pena per lei. Suo padre era morto quando lei aveva cinque anni e sua madre, dopo essere passata da un fidanzato all’altro per qualche anno, alla fine si era messa con un ragazzo che poteva essere suo figlio.

La compassione dei parenti non è un gran bel sentimento però in questo caso era meglio di un calcio negli stinchi.

Il ricordo della casa in cui era cresciuta l’aveva rimosso, al suo posto c’era solo un buco nero.

Ecco il telefono” disse rientrando Emma “Andrea ha detto che tra dieci minuti lo vuole indietro. Era un po’ preoccupato che lo toccassi io perché sa che non ho molta dimestichezza con questi aggeggi, ma l’ho rassicurato, gli ho detto che serviva a te, soltanto per fare una telefonata. È stato molto carino, ha detto che me lo dava perché si fida di me, che io sono una garanzia. È un bel complimento, no?”

Chiara non rispose nemmeno, afferrò il telefono e digitò su Google “Accademia delle Arti Via Isacco Newton 7 Roma” e un secondo dopo apparvero logo, numero di telefono, mappa, indicazioni stradali e una maschera da compilare per chiedere informazioni di qualsiasi genere.

Emma pensò che, in effetti, questi telefoni moderni sono piuttosto utili in certe circostanze, si potrebbe perfino fare a meno del computer, che tanto si impalla continuamente!

Chiara chiamò l’Accademia, si fece dare l’indirizzo del teatro in cui stavano facendo le audizioni, si accertò di essere ancora in tempo e chiuse senza ringraziare né salutare. Gettò il telefono sul divano che rotolando quasi cadde a terra facendo sussultare Emma che si precipitò a salvarlo, poi disse: “Avevi detto che mi avresti aiutata no? Allora decidi, o mi dai i soldi per il tassì oppure mi accompagni tu. Ce l’hai la macchina? No, meglio il tassì, chissà come guidi, per carità, magari ci mettiamo tre ore. Se mi presti 50 euro mi ci compro pure qualcosa da mangiare. Però non lo so quando te le potrò restituire, dipende, se mi danno la parte qualche speranza ce l’hai”.

Chiara ed Emma

Nella teiera preriscaldata il tè era quasi pronto. Emma sapeva bene che Il tè non sopporta la fretta e la superficialità, perciò lo aveva lasciato in infusione per 5 minuti mentre sistemava con cura sul tavolino del salotto il vassoio con la tazza del servizio inglese e un piattino con biscotti alle mandorle. Niente zucchero, perché danneggerebbe il sapore del tè.

Mentre sorseggiava il suo tè ripensava a quella strana ragazza. Aveva quell’atteggiamento da donna vissuta, si mostrava spavalda, irriverente, ma era chiaro che era soltanto una bambina cresciuta troppo in fretta e tanto sola.

Emma pensava che avrebbe avuto bisogno di una madre che la consigliasse e che la facesse sentire amata. Una madre con cui discutere e anche litigare, come fanno tutti i ragazzi. Una madre da abbracciare, ogni tanto. Chissà se esisteva una madre, da qualche parte, che si preoccupava per lei.

Pensava che sì, le sarebbe piaciuto avere una figlia, in quello strano giorno in cui l’ascensore aveva deciso di farle incontrare, sulle scale, la fragilità e la solitudine.

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