LE PAROLE DEL LUNEDÌ: CAPITOLO 6

“SOTTO LO STESSO FRAGILE CIELO”

(Via delle Azalee n. 7)

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Elisa – interno 7

(il rumore della vita)

di Luigina Baschetti

Racconto 6.1

Elisa aveva capito, già da bambina, di essere diversa da tutti quelli che conosceva, di avere la capacità di vedere più lontano, oltre le cose, e la capacità di sentire il rumore della vita.

Avvertiva i segnali che il suo corpo le inviava. Quando stava per ammalarsi, oppure quando la felicità o l’emozione o la paura stavano per travolgerla, lei sentiva le sue cellule reagire, prepararsi ad affrontare l’evento.

Non lo aveva mai detto a nessuno, per paura di essere presa per pazza, che sentiva scorrere il sangue nelle vene nel vero senso della parola, che sentiva l’aria entrare dal naso, scendere attraverso la trachea e invadere i polmoni, che le immagini affondavano nel suo cervello come la lama del coltello nel burro, e che nel buio continuava a vedere le sagome di persone e cose.

A letto, prima di addormentarsi, sentiva un fremito nelle gambe, come se stessero camminando ancora o ricordassero e ripassassero i movimenti del giorno. I capelli, a volte, le facevano male vicino alla cute, come se ne avvertisse la crescita.

Sentiva e distingueva le fasi del ciclo mestruale, non in maniera dolorosa, come la maggior parte delle sue amiche, ma come un succedersi di avvenimenti che che le provocava dei fastidi un mese si e un mese no, al fianco sinistro. Solo dopo molti anni scoprì di avere delle cisti all’ovaio sinistro.

Elisa si era chiesta se anche gli altri fossero così ma, quelle poche volte che aveva provato a confrontarsi aveva capito subito, da come la guardavano, che era meglio lasciar perdere. Si convinse col tempo che la maggior parte delle persone sono piuttosto superficiali e che non si soffermano ad “ascoltare”.

Non si era mai considerata speciale fino a quel giorno. Era andata avanti così per anni compiacendosi di trovare divertente ed appassionante analizzare tutto quello che succedeva al suo corpo, ma non sapeva ancora che avrebbe potuto farlo anche con quello degli altri.

Racconto 6.2

Quando un’amica di sua madre, incinta di otto mesi, le offrì l’occasione di toccare il pancione per carezzare affettuosamente il bambino e sentire, se fosse stata fortunata, un suo movimento, scoprì una cosa che non si aspettava. Non ne era sicura perché non le era mai capitato prima, ma sapeva che c’era qualcosa che non andava. Aveva avvertito proprio la sensazione della morte, anche senza averla mai incontrata prima. Sperò di essersi sbagliata. Non disse nulla e aspettò.

Qualche giorno dopo la notizia che il bambino era morto nella pancia già da un po’arrivò come una sentenza, di morte e di presagio.

Per la prima volta pensò che poteva sentire la vita scorrere anche nei corpi degli altri e questo la spaventò.

Non lo disse a nessuno e cercò di non pensarci. Non voleva diventare una specie di strega o di veggente che gli amici consultavano per sapere se avevano il cancro. Lo tenne per sé e cercò anche di evitare che il contatto con gli altri la condizionasse o pregiudicasse il rapporto che aveva con loro. Solo con le persone che amava e che avrebbe amato in seguito esercitò questa capacità e, per fortuna, andò sempre bene.

Se ne servì quando morì suo padre per restare con lui, o con ciò che restava di lui, più a lungo possibile. Era morto, ma la vita continuò a scorrere in lui ancora per un po’, dentro il corpo, nelle sue vene, finché il sangue raggelò. E lei tenne la mano sul corpo di suo padre, seguendo quell’anelito di vita che affievoliva sempre di più, toccandolo, là dove lo avvertiva.

Restò con la mano sotto l’ascella sinistra, l’ultimo punto caldo di quel corpo senza vita già da due ore, fino a quando non sentì più nulla.

Ora della morte ufficiale: 14,05.

Ora della morte effettiva: 16,05.

Racconto 6.3

Suo marito aveva scoperto che quando aveva mal di testa, se lei gli teneva la mano sulla fronte o la nuca, gli passava.

Lei lo faceva ogni volta che lui lo chiedeva ma poi fu costretta a smettere, scusandosi mortificata, perché la cosa le costava una fatica che non riusciva a comprendere. Dopo qualche minuto le veniva mal di stomaco e nausea e, se si ostinava a continuare, il mal di testa veniva a lei. Non comprese mai perché, e le restò il rammarico di non riuscire a togliere il dolore a suo marito senza che se lo prendesse in carico lei.

Per fortuna il dono, che funzionava anche con gli animali e le piante, non le portò solo messaggi di morte e di dolore.

Un episodio curioso che negli anni si divertì a raccontare fu quello che accadde a casa di un amico che aveva un grosso cane, risultato di un incrocio con un cavallo, dicevano gli amici scherzando, tanto era grande.

Proprio per le sue dimensioni, il cane era temuto da tutti.

Quando voleva giocare correva per la casa avanti e indietro, urtando porte, tavoli, sedie e travolgendo chiunque incontrasse sul percorso.

Per questo motivo Elisa e suo marito erano tra i pochi coraggiosi che accettavano di tanto in tanto un invito a cena da Alfio.

Quella sera, non appena entrati in casa, il cane andò loro incontro al galoppo come di consueto, per salutarli. Elisa si aggrappò al marito per non cadere ma il cane cambiò subito atteggiamento quando le fu vicino. Cominciò a girarle attorno insistentemente, la seguì passo-passo per tutta la casa e quando Elisa si sedette a tavola si sedette a terra accanto a lei, posò la sua enorme testa sulle sue gambe, con il muso puntato verso la pancia e non si mosse più da quella posizione per tutto il tempo che lei restò seduta. Elisa non lo aveva ancora detto a nessuno che era incinta.

Le piante adoravano Elisa. In tutti i luoghi da lei frequentati regnava il colore verde, aleggiava la clorofilla, proliferavano germogli. Qualunque cosa lei piantasse cresceva, germogliava, fioriva.

I colleghi in ufficio le affidavano le piantine ormai quasi morte, quelle apparentemente senza speranza, quelle che guardandole ti facevano venire tristezza per il colore giallo, la consistenza appassita, i rami secchi, la terra arida, il vasetto pieno di incrostazioni. Le chiedevano la grazia, come a padre Pio, di toccarle e farle tornare a vivere.

Lei se ne prendeva cura, le metteva vicino alle sue perché, diceva, avevano bisogno di sentirsi in compagnia, al sicuro, protette e amate, esattamente come le persone.

Elisa ogni giorno dedicava loro un po’ di tempo. Le guardava e sorrideva, le accarezzava, le incoraggiava, le rassicurava. Qualche volta le rimproverava scherzosamente, quando trovava una foglia ingiallita oppure quando non fiorivano, minacciandole di spostarle altrove. Qualcuno la trovava un po’ stramba per questo, ma i risultati di quel comportamento erano sotto gli occhi di tutti.

Alcune piante erano con lei da tanti di quegli anni che nessuno ricordava quando fossero arrivate, come fossero state lì da sempre. Come se fossero un complemento di Elisa, inscindibile.

Racconto 6.4

A casa Elisa aveva la fortuna di disporre di un piccolo terrazzo, non un giardino come avrebbe voluto, ma un terrazzo di 15 metri quadrati. Era comunque una privilegiata, perché in quella palazzina, costruita nei primi anni del secolo scorso, era già una fortuna che ci fossero dei terrazzi. La maggior parte delle costruzioni di quell’epoca hanno – quando li hanno – balconi lunghi e stretti. Mica c’era il cemento armato prima!

L’architetto che aveva disegnato quell’edificio dotò gli appartamenti del primo piano di giardini e quelli del terzo piano di piccoli terrazzi. Il palazzetto risultava così movimentato e molto gradevole da un punto di vista estetico.

Con i suoi vicini di casa, in particolare con Paolo, che le abitava accanto, s’instaurò una sorta di competizione sul piano botanico. Lui era molto bravo a disporre le piante in modo “scientifico”, seguendo un preciso disegno estetico. Il risultato era eccellente e spesso la invitava a casa sua per mostrarle le sue opere.

Il terrazzo di Elisa invece sembrava l’Orto Botanico di Roma. Elisa lasciava che le sue piante crescessero come volevano. C’era di tutto, e tutto riusciva a convivere non-si-sa-come. Le piante crescevano le une accanto alle altre, diverse per qualità, grandezza, tipologia ed esigenze, adattandosi a quella convivenza con grande disinvoltura, creando un’atmosfera di allegra confusione. Quel piccolo paradiso terrestre era l’orgoglio di Elisa, lo amava, lo curava e lo proteggeva quasi quanto il suo unico figlio.

Il legame che univa Elisa al figlio era del tutto speciale. Almeno così lei credeva.

Sapeva di essere una persona fuori del comune e pensava che questo sarebbe stato un valore aggiunto, che suo figlio avrebbe avuto di più, da una madre come lei.

Tutte le madri sentono i figli come un’estensione della loro vita, una protuberanza del corpo, proprio come i germogli di una pianta, che crescono assumendo una forma propria, somigliante ma diversa da quella che l’ha originata, e continuano a sentirli come propri, come fossero ancora attaccati, anche quando se ne vanno.

Lei sapeva che suo figlio era fatto della sua stessa sostanza e sperava che avesse ereditato la sua capacità di sentire la vita.

Intravedeva in lui certe affinità quando da bambino fissava le persone, le studiava come se vedesse in loro qualcosa che andava oltre la fisionomia, il vestiario, l’atteggiamento, il modo di parlare. Poi cercava conferme facendo domande, toccandole, finche non trovava le risposte che cercava.

Quando era molto piccolo, la sua esuberanza e la sua incontenibile curiosità, mettevano spesso in imbarazzo Elisa e suo marito, che dovevano intervenire per giustificare i comportamenti del bambino e le sue domande.

Si consolavano pensando che crescendo sarebbe stato in grado di controllare i suoi istinti e che avrebbe tratto vantaggio da quelle sue caratteristiche, dalla sua spontaneità, dalla disinvoltura, dal coraggio con cui affrontava ogni cosa.

Tutti lo amavano e lui amava tutti. Era felice e sereno, almeno così sembrava.

Elisa aveva sempre pensato di essere una donna equilibrata e fortunata. Quello che aveva avuto dalla vita le bastava e la sua capacità di “sentire” e di “vedere”, ben oltre quello che tutti sentivano e vedevano, le dava un senso di completezza e di appagamento.

Forse per questo non avvertì mai il pericolo dell’invidia, della gelosia, dell’ambizione, che abita nei cuori di alcuni.

Forse per questo non si accorse che suo figlio non aveva sviluppato la capacità di riconoscere tali insidie e, cresciuto a pane e onestà intellettuale, poteva essere facile preda di un rapace.

Forse per questo non riconobbe e non seppe dare un nome alla sensazione che avvertì nell’abbraccio insincero, nel bacio freddo, nello sguardo sfuggente di quella donna.

Mentre dava da bere alle sue piante Elisa pensava sempre a cose belle. La metteva di buonumore curare le piante ed ammirare la loro meravigliosa diversità. Si sentiva ancora fortunata, nonostante tutto, anche se non vedeva suo figlio da più di quattro anni.

ALIEN la chiamava, come il titolo di quel famoso film di fantascienza. Alien si era impossessata di lui ed erano diventati un corpo solo. Lui ospitava “la cosa” e l’amava, come si ama ogni singola parte di sé stessi, ogni organo del proprio corpo, di cui non si può fare a meno. A meno di morire.

L’aveva lasciato andare, suo figlio, perché voleva vivere la sua vita, seguire la sua strada, fare le sue scelte, ed era giusto così, pensava Elisa. E ora le cose stavano così.

Tutte le madri s’interrogano, prima o poi, chiedendosi se il destino dei loro figli può essere dipeso da loro, dalle loro scelte, ed Elisa non faceva eccezione. Riteneva di aver fatto del suo meglio, come tutti i genitori, e questa consapevolezza le permise di mantenere la serenità e l’equilibrio che erano sempre state le inconsapevoli coordinate che regolavano la sua vita.

Lei sapeva che niente accade per caso, che tutto ha un senso nella vita, anche quando noi non riusciamo a comprenderlo.

Le gioie sono doni del destino e il loro valore è nel presente, ma i dolori sono la sorgente della conoscenza e il loro significato si mostra nel futuro”, scriveva Steiner.

Quasi sempre, prima di preparare la cena, Elisa faceva un giro sul terrazzo per dare un’ultima occhiata alle sue piante. L’esposizione del suo appartamento non le offriva purtroppo la vista del tramonto, appannaggio dei suoi vicini di casa, ma anche senza godere di quel privilegio, poteva soffermarsi a contemplare ed apprezzare i colori che tutte le cose assumono in quella fase della giornata in cui non è più giorno e non è ancora notte, un momento magico in cui tutto sembra fermarsi, come in attesa di qualcosa.

Mentre dava da bere alle sue piante e un altro giorno lasciava il posto ad una notte di speranza, Elisa pensava che doveva solo aspettare, che prima o poi la vita le avrebbe dato una risposta, un segnale. E lei lo avrebbe riconosciuto.

Racconto 6.5

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