Intervista di Gianluca Cleri
Si torna live dentro i centri sociali e nelle piccole osterie di periferia, rigorosamente di notte, tra fumi alcolici e quel suono viscoso, ruvido, distorto di un rock alternativo, underground, figlio di fiori dissidenti. E la denuncia sociale non è solo racchiusa nella sottilissima eleganza di questo titolo, “Che la testa ti sia lieve”… il muro di suono dei Rough Enough, ovvero Fabiano Gulisano e Raffaele Auteri, sembra anacronistico non fosse per il mix e il modo di gestire la voce che ci traghetta inevitabilmente nell’indie moderno. Punto a capo perché le risposte che seguono sono assai interessanti. Spazio dunque alle consuete domande di Just Kids Society:
Iniziamo sempre questa rubrica pensando al futuro. Futuro ben oltre le letterature di Orwell e dei film di fantascienza. Che tipo di futuro si vede oltre l’orizzonte? Il suono tornerà ad essere analogico o digitale?
Penso che in qualche modo siamo costretti a pensare e immaginare un futuro positivo. Se ci focalizziamo su un mondo senza via d’uscita probabilmente vivremmo perennemente con un senso di sconfitta, invece mi piace pensare che la società (in particolare la parte composta dai giovani) stia prendendo coscienza di tante cose negative e stia cercando di rendere il mondo un posto migliore. Jonathan Feldman d’altronde affermava che “se non sei un utopista, sei un pirla”.
Per quanto riguarda la musica penso che il futuro sia necessariamente verso il digitale, è sicuramente più veloce, comodo ed economico, anche se ultimamente si sta provando a riscoprire l’analogico; è tornato di moda il vinile e molte band continuano a registrare su nastro, cosa che vorremmo fare anche noi un giorno.
I dischi ormai hanno smesso di avere anche una forma fisica. Paradossalmente torna il vinile. Ormai anche il disco in quanto tale stenta ad esistere in luogo dei santi Ep o addirittura soltanto di singoli. Anche in questo c’è un ritorno al passato. Restiamo ancora dentro al futuro: che forma avrà la musica o meglio: che forma sarebbe giusta per la musica del futuro?
Sicuramente una forma digitale, con tutti i suoi pro e contro. Penso anche solamente a un fattore ambientalista, mi sembra una buona cosa ridurre la produzione di materiale plastico come il cd o in vinile, anche se molte persone rimangono legate all’edizione fisica. C’è uno strano senso di godimento nel possedere una confezione, magari con un artwork particolare, a fare girare un disco e vedere che la musica proviene da lì, ma credo che sia giusto spostarci anche verso il digitale, che ha sicuramente molto più vantaggio nella diffusione rapida e nella conservazione.
Penso che l’unica cosa che non dovrebbe mai cambiare sia la musica dal vivo, finché artisti e band di qualsiasi genere potranno esibirsi davanti a un pubblico credo che vada bene così.
La pandemia ha trasposto il live dentro incontri digitali. Il suono è divenuto digitale anche in questo senso… ormai si suona anche per interposto cellulare. Si tornerà al contatto fisico o ci stiamo abituando alle nuove normalità?
Sicuramente si è scoperto un altro modo di fare musica, ma credo sia molto lo specchio della società moderna. Abbiamo già da anni i love streaming per conferenze, convegni e altre cose. Basti pensare alla piattaforma Twitch dove le persone si filmano mentre giocano ai videogiochi o fanno altre attività. La musica più che altro è stata costretta ad arrivarci per la situazione pandemica, ma mi sembra che resista ancora la voglia di suonare dal vivo, di condividere un momento intenso come un concerto assieme ad altre persone. Penso che troveremo la giusta via di mezzo, d’altronde le registrazioni dei concerti sono roba che va avanti dagli anni 80 praticamente, non mi sembra una rivoluzione in senso lato.
Scendiamo dentro le pieghe di questo disco, un lavoro complesso nella sua resa istintiva, capace di dire la sua con un fare anche d’autore… ma poi il comparto del suono, ruvido, acido, viscoso, reale, gioca un ruolo importante nella personalità dell’opera che con i compromessi non instaura dialoghi granché interessanti. Nel tempo però dell’estetica facile e del suono omologato e digitale, questo disco come si inserisce dentro una scena ampiamente devota alla musica leggera digitale, immediata e quasi sempre densa di contenuti superficiali?
Diciamo che essere dei musicisti indipendenti ha giocato a nostro favore. Abbiamo lavorato con Franz Valente alla produzione artistica, ma in linea generale siamo stati capaci di poter esprimere la nostra musica senza scendere a compromessi “commerciali”, quanto se mai a compromessi di registrazione, in cui magari pensi un brano in una maniera, ma poi ti rendi conto che registrato necessita di alcune modifiche per renderlo davvero godibile e radiofonico. Poi sicuramente non ci piace scendere a compromessi, anche solo per il genere che facciamo o i testi che vogliamo cantare, quindi sicuramente fare un lavoro discografico che ha bisogno di un ascolto magari più attento potrebbe penalizzarci, ma penso sempre che sia meglio avere poche persone che apprezzano davvero chi sei e quello che fai, che magari dieci mila ascolti frivoli di una tua canzone che fa solo da sottofondo sfocato per tre minuti e mezzo.
Rough Enough è un progetto autentico e diretto e penso che difficilmente cambieremo quest’attitudine, anche perché è quella con cui ci presentiamo in concerto. Certo, ci piacerebbe arrivare a un pubblico ampio e magari in questo periodo storico le persone cercano nella musica solo un senso di evasione e quindi prediligono ascolti leggeri, ma crediamo esistano ancora persone che cercano qualcosa di più in questa forma di espressione artistica.
E poi tutti finiamo su Spotify. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Ma credo che alla fine sia inevitabile. Forse è sbagliato il pensiero iniziale, cioè quello che ogni volta che ascolti una mia canzone devi pagarmi. Credo che chi faccia arte, e intendo davvero, non ragioni in termini economici. Spotify (così come gli altri streaming digitali) sono solamente delle vetrine, in cui magari è facile essere scoperti e ascoltati, ma finché permettono di ampliare il proprio pubblico e fare arrivare un messaggio penso che per ora vada bene. Ricordo quando vent’anni fa iniziava la diffusione di musica su YouTube o ancora prima su Soulseek. Alla fine l’obiettivo finale è quello di arrivare alle persone. Poi sicuramente quando si viene ingaggiati in concerto subentra la dinamica lavorativa ed è sempre giusto pagare per vedere un’artista dal vivo, ma in generale non mi piace l’idea di essere accessibile all’ascolto solo a chi paga.
Dunque apparenza o esistenza? Cos’è prioritario oggi? La musica come elemento di marketing pubblicitario o come espressione artistica di un individuo?
Per noi sicuramente la seconda. Suoniamo perché siamo, suoniamo e scriviamo testi per capire meglio noi stessi e il mondo che ci circonda, per vedere se altre persone la pensano come noi, sono come noi. Purtroppo mi sembra che l’apparenza giochi un ruolo fondamentale, ma questo dall’arrivo dei grandi media, già dagli anni 80 probabilmente. Se non hai un videoclip girato bene e un’immagine forte non arrivi ad avere troppa visibilità e mi sembra che sempre più artisti inseguano mode passeggere e cambino genere ogni cinque anni per restare sempre sul vivo. Penso che invece chi rimanga autentico riesca a sopravvivere al mattatoio mediatico.
Una cosa che ci dicono spesso è che dobbiamo essere più “social”, poi penso al fatto che io se seguo una band o un’artista lo faccio per restare aggiornato sulla sua musica, non per sapere cosa fa durante la giornata. Vogliamo piacere per la musica che facciamo, non perché siamo simpatici e fotogenici.
A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto dei Rough Enough, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
“
Andate tutti a fanculo” dei The Zen Circus.