LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: FOLKATOMIK

Intervista di Gianluca Cleri

Ecco l’esordio di un progetto davvero molto interessante. Siamo di fronte alla contaminazione culturale, attraverso la mescolanza dei tempi, delle abitudini, dei linguaggi…tutto nel pieno rispetto delle origini che qui trovano forme nuove ma non rivoluzionarie, riconoscibili sempre, sempre portatrici di quel gusto e di quel certo colore nonostante in molti tratti dell’ascolto, la tecnica nuova si fa sfacciatamente invadente. I Folkatomik (al secolo Franco Montanaro, Oreste Forestieri, Valeria Quarta e il chitarrista e producer di musica elettronica Li Bassi) prendono le canzoni popolari dell’Italia del sud, quelle che per lo più sono state tramandate a voce e da poche scritture… e ne ridanno voce con suoni nuovi, digitali, senza privarsi di una profonda ricerca strumentale grazie all’utilizzo di protagonisti indiscussi come chitarre portoghesi, flauti arabi, friscaletti siciliani, marranzani e tantissimo altro. Un disco come “Polaris” è un’esperienza da vivere sulla propria pelle. A loro le inevitabili domande di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
Guarda in realtà, forse proprio perché oggi è realmente facile comporre musica con “format pre-costituiti”, si sta già tornando a una forma sempre più suonata e minimale, composizioni piene di vuoti e che forse rispecchiano meglio l’epoca che stiamo vivendo e il futuro al quale stiamo andando incontro; e sinceramente questo mi fa molta più paura dell’invasione dei computer. Si asciuga sempre di più di frequenze e inevitabilmente di sostanza, struttura, contenuto. Per quanto riguarda noi e il rapporto che abbiamo con i “computer” posso dire che siamo molto attenti a non utilizzare i facili sample delle librerie ma a crearne di nuovi, i nostri.
(Forestieri)

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
Tutta questa produzione sarà come la plastica, si accumulerà per anni e non sapremo più come smaltirla…
A parte gli scherzi, il mondo digitale è un mondo con cui già facciamo i conti (come sappiamo e senza andare tanto indietro nel tempo) da almeno un ventennio e con cui dovremo fare i conti almeno fino alla nostra (speriamo tarda) dipartita. È un mondo che esige il suo prezzo da pagare per le comodità che offre in cambio…un po’ come la plastica… È inevitabile quindi che comprometta tutta una serie di cose, dalla creazione fino alla fruizione della musica. Possiamo dire semplicemente che maggiore è la diffusione perché maggiore è la richiesta. Nell’epoca in cui la rete si nutre voracemente di contenuti, quei contenuti qualcuno dovrà pur farli e la musica è sempre al centro di quei contenuti. Detto questo penso che non necessariamente questa attuale tendenza soppianterà i vecchi sistemi di produzione e/o riproduzione, vedi il prepotente ritorno del vinile, è tornato proprio nel momento in cui credevamo si fosse ormai estinto… Un po’ come le zampogne…
Dunque si, chiunque oggi può fare un disco grazie alle nuove tecnologie accessibili a tutti, oggi basta uno smartphone per produrre un brano. Se sia un bene o un male di certo non sta a me dirlo. Io personalmente potrei solo dirti se un brano mi piace o meno secondo il mio gusto. Per il resto noi facciamo dischi per come ci piace farli e cercando di farli bene, anche se la nostra vera vocazione in fondo, rimane il live.
(Forestieri)

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
Forse in parte ti ho anticipato la domanda con la storia del vinile…e della zampogna…
Il passato come detto, non sarà mai totalmente estinto, tornerà ciclicamente a ripercorrere altre epoche assumendo nuove forme. Per quanto mi riguarda quindi, non ha assolutamente senso pensare che si torni a vivere come nel passato, ma occorre trovare un senso nel passato per poter meglio affrontare il presente e probabilmente anche il futuro.
(Forestieri)

Ed è il momento di scendere dentro questo disco. “Polaris” sembra narrare un passaggio di consegne. Il passato incontra il futuro e da questo si lascia codificare.
È andata proprio così, hai letto giusto. Io e Franco, che interpretiamo in qualche modo il passato coi nostri strumenti acustici, ci siamo fatti codificare da quel mega processore che è Lì Bassi (che in qualche modo interpreta il futuro) ed è nato Polaris.

Un tradurre il tempo antico dentro i modi nuovi e questo ci porta inevitabilmente alla questione sociale: un esperimento di ricerca e fascino anche culturale o qualcosa che in qualche modo ha necessità di essere per accogliere anche il linguaggio delle nuove generazioni che magari mai andrebbero ad ascoltare gli originali?
Entrambe le parti.
C’è sicuramente di fondo una ricerca e un fascino culturale (se lo si percepisce) a partire dai testi a finire alle musiche e passando per il concetto con il quale è stato realizzato, la colla che tiene unito il lavoro. Ma c’è anche il fatto di voler far avvicinare i più giovani a questa musica…che in realtà fa parte del concetto. Com’è stato un po’ per noi in fondo, quindi si, un po’ è una necessità di essere.
(Forestieri)

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Che si possa accedere a milioni di brani è qualcosa di stupendo…che non avremmo potuto mai immaginare. Il problema è: ci serve e possiamo ascoltare milioni di canzoni?
Il risultato è che siamo sempre meno affezionati a questi brani, facciamo Skip in modo compulsivo e ci perdiamo piccole perle artistiche.
Nell’attesa di avere nuove soluzioni (al momento non le conosciamo) ci sono un paio di strategie. Ad esempio se usiamo Spotify o simili, creare playlist per ritrovare la musica che stiamo scoprendo e non girare a random fra le infinite proposte.
Altra strada che consiglio sono portali più piccoli ma precisi, penso a Bandcamp dove l’utente scopre una band e può entrare, in contatto in modo semplice e sostenere con pochi euro un progetto. Anche Soundcloud è un’alternativa che consiglio.
Meno nastri luccicanti, ma tanta buona musica.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Hai già detto tutto, si esiste solo se… e se non lo facessimo? Forse ci saremmo lo stesso forse no, chi lo sa. È un sistema dal quale o sei dentro o sei fuori, e sinceramente non ci siamo mai chiesti come sarebbe essere fuori. Ci si convive col giusto distacco.
(Forestieri)

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto dei Folkatomik, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Direi “That’s Amore” oppure “Hey Boy Hey Girl”…perché alla fine siamo dei romanticoni!!!

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