Il Tibet negli olii di Han Yuchen
Una capacità unica di Roma è quella di offrire, a chiunque la visiti, una grandissima varietà di scelte e di possibilità. In una calda giornata di luglio, questa varietà si è concretizzata nella nuova mostra ospitata a Palazzo Buonaparte, in Piazza Venezia, organizzata con la collaborazione di Arthemisia Arte e Segni D’Arte, e dedicata a quello che è oggi considerato uno dei più grandi pittori ad olio viventi, non solo tra i pittori della scuola cinese, ovvero Han Yuchen.
Han Yuchen è un pittore che si potrebbe definire un classicista della scuola della pittura ad olio asiatica che molto deve al passato impressionista di classici europei che il pittore colleziona ampiamente nel suo museo personale, il che ha il tocco del mecenate rinascimentale.
La mostra mette in luce due spinte che il poliedrico artista cinese riesce a inserire nelle sue opere: catturare l’essenza del Tibet e il manieristico ripetere il passato con gli occhi nuovi dell’homo sapiens del XXI secolo.
Sul primo aspetto, tanto c’è da dire. I quadri di Yuchen evidenziano le contraddizioni di un mondo contemporaneo che, sul tetto del mondo, ancora oggi va schiantandosi contro il potere, strapotere, di una natura incurante e incapace di badare ai suoi umani. Una terra che oggi si mostra ruvida, dura, innevata e domani sporca di fango e detriti. Una terra che, come dice l’artista, più di una volta ha messo a rischio la sua stessa vita.
Nei quadri ad olio esposti a Palazzo Bonaparte, risalta tutto questo contrasto tra una terra letale, arida, a volte spiazzante e questa popolazione che pure l’ha riempita con il suo abitare, il suo movimento e le sue tracce, perse tra le vesti colorate, i pesanti copricapi, i templi sparsi nel tetto del mondo e tra le sue spine che svettano contro il cielo.
Sono tratti che sembrano quasi anacronistici, quasi un resoconto ritrovato di un qualche esploratore del XIX secolo perso tra il Grande Gioco russo-britannico e le esplorazioni di lande spesso inaccessibili. Invece, è qui nel contemporaneo che ritroviamo le tracce di Han Yuchen, il suo distacco dalla modernità rapida e illuminata al neon della Cina contemporanea per perdersi tra i sentieri di terra e pietra delle montagne tibetane.
La purezza del Tibet risalta grazie all’uso strategico dei colori e dell’olio, dalla capacità di catturare tanto il paesaggio che le rughe delle anziane abitanti in una maniera quasi fotografica. Una purezza spirituale, una finzione costruita ad hoc dalle abili mani di Yuchen. Una splendida illusione, che nella realtà torna in linea con quell’approccio degli impressionisti europei dello scorso secolo. Millet, Cézanne, Courbet, tutti artisti che tanto hanno dato a Yuchen – che ne possiede esemplari nella propria galleria d’arte – e che si ritrovano fortemente nelle oleose pennellate. Si potrebbe dire che ci sia un tentativo di inserirsi proprio sulla loro scia, di prendere le redini di quel lavoro tra realismo e impressionismo interrotto dall’evolversi dei tempi degli spazi a cavallo dei due importanti secoli XIX e XX.
È un ritorno a quell’occhio esterno che va a cimentarsi nella antropologica esplorazione delle regioni ignote dell’umanità. Sembra un percorso simile a quello della fuga a Tahiti di Paul Gauguin, lontano dalla civiltà occidentale e colonialista. Un po’ come Yuchen corre via dalla capitalista, perennemente in movimento e tecnologica società cinese.
È un modo di osservare il Tibet, quello di Yuchen, che è stato efficacemente già definito come una malinconia anticipata, quel senso di abbandono di un mondo più puro, migliore, a un ritmo più naturale, che lentamente sta scomparendo – coinvolto in quel fenomeno della globalizzazione che lentamente ha artigliato anche i più remoti angoli della Terra. Si prova, nei suoi quadri, la sensazione che quel Tibet puro, rappresentato con una fine pittura ad olio fotorealistica, sia già finito. Si ha la sensazione che quanto provato dal pittore sia improvabile nuovamente, perché traccia di un esotico e misterioso passato sfuggito alle nostre dita nel momento stesso in cui l’artista ha portato le sue opere nell’altrettanto caotica Roma. Questa malinconia per il futuro rompe con il classico concetto solitamente rivolto verso un passato dorato.
Complice l’attenzione con cui i curatori, Nicolina Bianchi e Gabriele Simongini, hanno disposto le luci capaci di mettere in risalto i colori e i chiaroscuri degli olii, ma anche la divisione in tre tappe di questo percorso: Paesaggi, Ritratti e infine Spiritualità.
L’intera mostra è come un intimo viaggio dentro il mondo che Han Yuchen ha visto in Tibet e riportato qui tramite l’arte della pittura.
Come se fossimo improvvisamente tornati indietro di anni e fossimo ad attendere gli amici da un viaggio lontani, senza macchinette fotografiche, né prove video o social a ricordarci del loro viaggio, in un tentativo perenne di rimanere in comunicazione con loro.
Un viaggio privato che diventa pubblico nel momento in cui l’artista sente di avere completato alcune di quelle fondamentali tappe e di averle messe in luce sufficientemente bene da poterle esporre al pubblico, per donare parte della propria vita ed intimità.
Il pittore cinese torna in Tibet una volta all’anno da più di dieci anni per trovare quel senso di pace che gli sfugge nella civiltà di oggi. Questo, probabilmente, lo divide molto da tanti altri osservatori di un mondo altro che spesso si sono calati nelle vesti di giudici.
A volte, si potrebbe pensare ad una riflessione di tipo coloniale, ma è il termine sbagliato. Il Tibet di Yuchen è puro come gli olii usati per dipingerlo. I monaci elegantemente in fila, come la ragazza con la sciarpa, sembrano rappresentare la perfezione di un Paradiso Perduto Miltoniano. Qui, nelle opere del maestro cinese, si cerca davvero la purezza e la perfezione di un mondo che viene da lontano ma che è tale solo nelle sue opere.
È un efficace e simbolico tentativo di rompere con le arti contemporanee più classiche, con la loro lotta alla ricerca delle contraddizioni e delle storture, delle crepe. In questo senso, Yuchen torna alle origini, cerca quel primordiale senso di pace e tranquillità che pare negato nella civiltà del social, del veloce, del click instantaneo. Anche la scelta del mezzo di trasmissione di questo suo messaggio è iconica. La pittura a olio richiede tempo e pazienza, bisogna lavorare sui colori e sulle tele con perizia e spendendo giornate per rendere la propria visione chiara.
Proprio come Yuchen cerca dentro il Tibet e nella sua popolazione quel tempo oramai lontano, così lo ricerca anche nel mezzo, nelle interminabili giornate passate a pitturare per rendere su tela quello che gli occhi osservano nel mondo circostante. È un escapismo, quello di Yuchen, dal mondo della tecnologia, un ritorno verso quell’età dell’oro che andiamo ritrovando tra le greggi e tra gli abiti tipici dei tibetani che si sono prestati come modelli.
È una mostra non solo organizzata in maniera consona agli spazi belli ed eleganti di Palazzo Bonaparte, ma è anche un continuo respirare questa malinconia che ben si abbina con le estati romane e con quei ritmi lenti dettati dal sole che batte sui palazzi dell’antica capitale.
Una mostra che si offre a svariate riflessioni sui caratteri dell’arte contemporanea e sul suo continuo tentativo di inseguire i maestri del passato. Allo stesso tempo, è una riflessione sullo scorrere del tempo, su questa clessidra che, granello dopo granello, va perdendo la sua sabbia e così, anche, l’essenza di alcuni luoghi. Come il Tibet di Yuchen, conservato negli olii dei quadri ma già perso nelle tracce del tempo e del progredire.
È già un racconto storico, quindi. Come i resoconti dell’esploratore Ibn-Battuta, così i quadri di Han Yuchen ci parlano del suo bellissimo Tibet, di questa regione che ha adottato e da cui è stato adottato, in cui si è perso, ha rischiato la vita e ha finito per ritrovare il tempo che aveva disperso lungo la strada della contemporaneità.
INFORMAZIONI UTILI
MOSTRA TIBET, SPLENDORE E PUREZZA, con opere di Han Yuchen
Dal 14 luglio al 4 settembre 2022
DOVE: Palazzo Bonaparte – Piazza Venezia 5 (Angolo Via del Corso), Roma
ORARI: Da lunedì a domenica dalle 11.00 alle 21.00 (la biglietteria chiude un’ora prima)
PREZZO: 10 euro