Live report di Gaia Caffio
Attenzione: questo live report contiene molta enfasi.
C’è Nanni Moretti in prima fila e a Roma nord non è ancora tramontato il sole. I The National salgono sul palco e con loro le prime note di Squallor Victoria. Batteria pulsante e fiati. Matt Berninger entra e poggia per terra una bottiglia di vino bianco. Subito a seguire, I Should Live In Salt e Don’t Swallow The Cap, anch’esse ultime arrivate nella discografia della band. Tutti fissano il grande palco cercando di farsi un giudizio sui nuovi brani in versione live e di calibrare l’atmosfera, ancora un po’ irrigidita.
Arriva Bloodbuzz Ohio e ogni giudizio critico viene abbandonato insieme alla postazione numerata. Quattro pezzi e la prima bottiglia è andata. Ecco, comincia il concerto, o quello che credevamo fosse un semplice concerto e che di lì a pochissimo si sarebbe trasformata in una delle più belle esibizioni live mai viste a Roma. Da qui in poi la setlist ha poca importanza. Con quell’aplomb alcolica avrebbero potuto suonare di tutto. Mistaken for strangers, Demons, Sea of love, Afraid of everyone, Conversation 16, I need my girl, This is the last time, Baby, we’ll be fine, Abel… ci hanno regalato pezzi presi da ognuno dei loro lavori precedenti molto democraticamente, urlati e modulati nei toni dalla bella voce baritonale di Berninger (che tra un bicchiere e l’altro, ci ha ricordato che la prima volta a Roma suonarono allo Zoobar davanti a trenta persone).
Nel bis non si risparmiano ed il magnetismo sale a vista d’occhio: arriva Humiliation (lode a Ian Curtis!) e l’emotiva Terrible love. Climax di impatto… di cuore, Mr. November cantata da Berninger che vagava in mezzo al pubblico totalmente indifferente alle difficoltà dell’improvvisata iniziativa corale. Tanta, tanta bellezza (follia non gustarsi il momento per videoregistarlo!).
Da biasimare alcuni detrattori del fonico (evidentemente dei fan dei Porcupine Tree in incognito) che al mio fianco continuano a borbottare di imperfezioni varie. La resa sonora è totalmente in secondo piano quando ci si trova davanti una band capace di influenzare così profondamente l’animo di chi li sta ascoltando.
L’omega della serata è stata Vanderlyle crybaby geeks, suonata e cantata in cerchio, in acustico, con l’inevitabile abbraccio di tutta la cavea.
Scriveva Proust:
Avrei voluto – per poterla approfondire, per cercare di scoprirvi che cosa avesse di bello – arrestare, rendere immobile a lungo dinanzi a me ogni intonazione dell’artista, ogni espressione della sua fisionomia; per lo meno, a forza di agilità morale, istallando e mettendo a punto tutta la mia attenzione prima di un verso, procuravo di non distrarre in preparativi neanche una particella della durata di ogni parola, di ogni gesto, e , grazie all’intensità della mia attenzione, di arrivare a scendere così a fondo in essi come se avessi avuto a disposizione lunghe ore. Ma quella durata, quanto era breve!
Noi, camminando felici per Via De Coubertin, a concerto finito, con un fraseggio più umile naturalmente, abbiamo pensato qualcosa di molto simile.