Recensione di Fabrizio Morando
Avvicinarsi a una band italiana etichettata con generi di ampio spettro e per questo sfidanti – come lo stoner rock, il 70’s e il garage – può generare una vena di diffidenza. Questa formazione romana però incuriosisce, vuoi per il difficile approccio come “power duo”, vuoi per i citati filoni musicali davvero distanti dalle loro passate esperienze: Marco Pellegrino e Gabriele Di Pofi coniano nel 2009 i Rubbish Factory dalle ceneri di un gruppo cover dei Radiohead – non certo stoner e garage quindi – ma con la volontà di costruire qualcosa da quell’esperienza che fosse proponibile in una formula più aggressiva. Leggendo una loro recente intervista, hanno definito questo momento di transizione un riciclaggio del materiale sonoro utilizzato nella precedente avventura, un sorta di raccolta differenziata intelligente, ma riproposto in anima “heavy”. Da qui, ovviamente, il nome della band.
Certo che questa selezione tra spazzature e discariche, guantoni e antitetanica compresa, si è ridotto a qualche frammento e poco altro: dei Radiohead si trova davvero nulla se non una impercettibile impostazione melodica e un riferimento esplicito nel titolo del brano Stand up, sit down (rispetto alla track della formazione inglese, i verbi sono invertiti). Chinati dentro il cassonetto, invece, rovistiamo sacchi di heavy rock in stile Black Sabbath e quindi Queens of the Stone Age, Fu Manchu, Alice in Chains e, scavando più a fondo e a ritroso, Judas Priest, Blue Cheer, MC5 e tutto il baraccone vintage anni settanta.
Marco e Gabriele, alternandosi a batteria voce e chitarra e decontestualizzando di fatto il rapporto strumento/musicista al quale siamo tanto (male?) abituati, sputano con forza riff potenti e taglienti sovrapponendovi inaspettatamente un cantato melodico che regala all’ascoltatore una piacevole vena rassicurante e decisamente coinvolgente. Tutto questo rende i Rubbish Factory molto più vicini alle realtà metal/stoner più recenti (QOTSA, Kyuss in primis) piuttosto che ai mostri sacri del passato.
Anche nei momenti in cui la band si avvicina di più a quest’impronta retrò, come nel caso del singolo Bamsa, si avverte sempre il tentativo – molto spesso riuscito – di modernizzazione delle timbriche e della struttura ritmica che rende l’album un prodotto di una certa originalità. A volte si ha l’impressione che la produzione, un po’ piatta a mio avviso, dia poco corpo all’impatto elettrico e la batteria suoni leggermente “giocattolosa”, ma fortunatamente rimane un’impressione.
The Sun è quindi il primo album dei Rubbish Factory, uscito per etichetta Modern Life questo novembre e quindi fresco fresco di cottura. Assaggiarlo ancora caldo di forno produce l’effetto di carbonizzare quella sottile lingua di diffidenza della quale si parlava: gli stop’n’go di Wires evocano il fantasma di Layne Staley con tutto il grunge/metal di Alice in Chains a seguito, e stessa sensazione viene suggerita dalla bellissima Save me, probabilmente il miglior pezzo del disco, dove si alternano parti cadenzate ad esplosioni elettriche da headbanging sfrenato, sino a farsi venire la tipica cervicale da metallaro vissuto. Il che è dannatamente positivo, un po’ come tornare dalla settimana bianca col piede ingessato ma schifosamente nero d’abbronzatura.
Altro pezzaccio è Born in white, che utilizza un filtro alla voce che rende il tutto lo-fi garage, sino a chiudere con due piccoli gioielli, A Dance with silence in an old ghost movie e Mountains and dragons, che si dipanano in cadenze più lente e sincopate rispetto al resto del disco, tanto da far sbocciare un fiore acido/psichedelico mica da ridere: MC5 e Blue Cheer sì, ma… in totale anfetamina.
Non accoglierete i Rubbish Factory gridando al capolavoro ma il loro sporco mestiere lo fanno egregiamente e, parlando di spazzatura, “sporco” ci sta tutto. E sia ben chiaro, non aggiungiamo nulla a quanto già sentito. Né tantomeno si sente nulla di veramente innovativo da più di un decennio, vuoi proveniente da questo continente che oltreoceano, per cui non stiamo certo qui ad esaltare solo artisti seminali altrimenti avremmo rischiato di stroncare la quasi totalità dei dischi usciti dall’anno duemila a questa parte. Rimane il fatto che The Sun è uno di quei CD che dopo averlo ascoltato tutto lo rimetteresti nel lettore e di questi tempi, credetemi, non è poco.
THE SUN – RUBBISH FACTORY
(Modern Life, 2013)
- Bamsa
- Piece Of Cake
- Vick 3:47
- Save Me
- Darwin
- Wires
- Born In White
- Stand Up, Sit Down
- Dance El Washinghton
- Dance With Silence In An Old Ghost Movie
- Mountains And Dragons
[vimeo http://vimeo.com/78615657 w=700]