INTERVISTE: CAPOLAVORO – PINO MARINO

di Clara Todaro

Ritorna alla luce Pino Marino con un nuovo album che è (un) “Capolavoro”, un disco in cui l’Arte dà lavoro a chi crea e a tutti quelli che collaborano alla stesura di un’opera. Ancora una volta il cantautore non si risparmia e, dopo le imprese dell’Angelo Mai, dopo anni di scrittura e lavoro continui, si mette sulle spalle un nuovo carico, perché fare arte è anche una responsabilità civile e politica.

Il tuo nuovo album “Capolavoro” esce dopo ben dieci anni di stasi, perché è passato tanto tempo e cosa è successo durante questa pausa? I dieci anni passano non volontariamente; da Acqua, luce e gas – che era del 2005 – sarebbero naturalmente passati tre anni dal disco che avrebbe poi seguito quello, quindi diciamo che sono sette gli anni apparentemente ingiustificati. In realtà la giustificazione – anzi la motivazione – c’è perché sono stati anni in cui ho sperimentato il lavoro. Nella musica la parte della discografia è ormai uno spicchio, in pochi anni il meccanismo discografico è cambiato tantissimo. Mi sono reso conto che in realtà il disco è solo una piccola parte del fare musica in Italia, così ho occupato questo tempo a scrivere molto – tra racconti, una bozza di romanzo e, soprattutto, regie teatrali per me e per altri, canzoni per me e per altri – e a sperimentare forme di spettacolo diverse da quelle usuali. Poi, ogni tanto, mi fermavo a registrare alcune canzoni, così, in un attimo, tutto questo ha significato totalizzare dieci anni di distacco dal disco precedente.

Quindi nasce così “Capolavoro”, che di certo non è la tua unica opera migliore perché ne hai anche altre. Sembra piuttosto che con un titolo tanto impegnativo tu voglia fare riferimento a una personale concezione di Arte. Puoi spiegarci qual è? Il capolavoro è innanzitutto una responsabilità, quindi già pronunciare un titolo impegnativo comporta che chi lo pronuncia sia responsabilizzato da quello che sta dicendo. Dopodiché, dietro, ci sono le motivazioni: se non torniamo a mettere a capo il lavoro nelle nostre faccende non ne usciamo vivi. L’arte stessa oggi, a differenza di anni fa, non può compiere il suo capolavoro se non torna ad essere esempio di lavoro. Partendo da questo concetto, si aggiunge il fatto che ognuno produce il suo capolavoro proporzionato a se stesso. In realtà è bene che ognuno – ed è il suggerimento che do anche a me stesso per primo – si occupi di quello che riesce a toccare con la propria apertura alare – con le braccia aperte – e, dentro questo arco di contenimento, si dedichi quotidianamente a tutte queste cose. Il che non vuol dire rivolgersi altrove, pensare ad altro e lavorare per, ma curare tutti i giorni tutto quello che è raggiungibile nel proprio arco. Questo è già un capolavoro, riuscire poi a farlo diventare lavoro per altri – in questo caso le canzoni sono diventate un disco e quindi lavoro per altre persone, il che vuol dire: ufficio stampa, musicisti, management, booking etc… – è in realtà la funzione dell’arte stessa, cioè produrre lavoro non solo per se stessi ma anche per altri. Ecco tutto questo è condensato nel motivo del titolo.

Da sempre capita che gli artisti siano tenuti in scacco soprattutto nel caso in cui vogliano manifestare in totale libertà le proprie idee. In merito alla censura, tu cosa ne pensi? L’Italia non ha un’industria pesante – come l’acciaieria o il nucleare per esempio – e, ammesso che ce ne sia una, questa è l’Arte. Poi noi, in tempo di crisi, ci siamo procurati l’occasione scellerata di chiudere i rubinetti proprio a lei (l’Arte, ndr.), ma la nostra industria pesante è proprio l’Arte. Chi viene in Italia viene per un motivo, chi studia l’Italia la studia per un motivo, cioè quello che l’Italia ha prodotto. Questo significa che gli artisti sono dei politici – a mio avviso – e che loro per primi dovrebbero – al di là di accettare una censura, rispettarla per imbonirsi qualcuno od oltraggiarla per fare gli alternativi – essere i politici. Se l’Italia ha come industria pesante l’Arte, allora gli artisti sono i politici di questo paese. Il che vuol dire che la loro responsabilità artistica, la loro attività, deve essere distinta, firmata, riconoscibile, non incappucciata e deve operare sul territorio continuamente. Questa è la funzione artistico-politica dell’Arte e degli artisti.

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Rispetto agli album precedenti, quanto sei soddisfatto di “Capolavoro” e cosa c’è in più o in meno? Hai qualche aneddoto, ad esempio, da raccontarci? A parte fotografare la contemporaneità che non è mai simile a se stessa – tutti quanti i dischi sono sempre la fotografia diversa di un momento importante e noi siamo dei carburatori che assorbono e restituiscono continuamente -, la grande differenza di questo disco è il debutto di mia figlia. Lei è nata nel 2003 durante Non bastano i fiori e oggi è co-autrice con me di una canzone che, tra l’altro, porta il suo nome come titolo (Nina traccia n. 3, ndr.). Questo per me ha contato tanto ed è la differenza – personalissima – di questo disco.

Durante un’intervista – pubblicata poi in “I miei amici cantautori” – a Fernanda Pivano fu chiesto quali artisti, sui quali non era ancora riuscita a scrivere un articolo, volesse menzionare. Lei, tra gli altri, disse: «delle nuove generazioni, Giulio Casale e Pino Marino». Era il 12 maggio 2005. Cosa ti procura saperlo? Con Fernanda Pivano è stato un incontro straordinario: io nel 2004 vinsi un concorso nazionale (la prima edizione de L’artista che non c’era, ndr.) che era presieduto da Fernanda Pivano, con una giuria di tanti altri giornalisti musicali. Seppi poi che tutta la giuria, capitanata da Fernanda Pivano, all’unanimità aveva votato lo stesso brano, che era Canzone N. 8 del disco Non bastano i fiori. Lei mi disse anche – cosa di cui non mi ero reso conto neanche io – «Pino Marino, tu hai inventato il loop della parola. Esisteva il loop musicale, ora esiste il loop della parola. Con Canzone N. 8 tu hai inventato questo» e mi abbracciò. Da lì poi è nata la nostra amicizia a distanza, anche se ogni tanto ci incontravamo. Purtroppo ho avuto la possibilità di frequentarla, intuirla e percepirla per poco tempo, però è stato un incontro davvero importante.

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