Report e intervista di Francesca Vantaggiato
Photo Report di Maria Elisa Milo
La metà del mio tempo lo passo a lamentarmi di quanto la mia vita faccia schifo. Poi mi rendo conto che l’altra metà la passo andando ai concerti, bevendo birra e intervistando persone grandiose che mi lasciano un sacco di idee nella testa, cose a cui pensare e bella musica da ascoltare. I Parados sono un esempio di questa seconda metà: il loro concerto allo Spazio Ex-Cobianchi – per quanto l’acustica non fosse del tutto adatta a tirar fuori la profonda bellezza della loro musica – mi ha lasciata senza parole. I ragazzi sanno fare il loro mestiere! Riescono ad orchestrare musica e testi in maniera poetica e toccante, ti fanno venire i brividi. Così ci siamo fatti un’interessante chiacchierata e qualche domanda scomoda alla fine è venuta fuori.
Avete un suono bellissimo: come ci siete arrivati?
Stefano (S): Ognuno porta il suo gusto personale e il suo suono con le proprie caratteristiche poi – non si sa come né perché – riusciamo ad incontrarci in un modo originale. Io la vedo come una cosa molto alchemica, perché appartentemente possiamo arrivare da gusti musicali molto diversi e riusciamo a coniugare bene questi mondi e sfumature da cui partiamo
Quali sono questi mondi diversi di cui parli?
Alberto (A): Diciamo che come succede in tutti i gruppi, ogni componente ha suonato almeno i otto gruppi precedenti, dai dodici anni quando cominci a fare le cover, passando per tutte le varie svolte di elettronica, musica sperimentale e classica, fino ad arrivare al momento in cui scegli lo strumento che vuoi davvero suonare e poi c’è l’improvvisazione. Ci sono tutti questi passaggi e poi arriva l’unione tra tutte queste storie che crea il suono finale. Ad esempio, Stefano (il batterista) viene da un passato jazz-funky-hiphop-rap molto più roots e soul; Giorgio (il chitarrista) ha passato metal-industrial e altre cose malatissime, poi è con lo studio della chitarra è passato per la musica classica, al suono senza effetti; Luca (voce) viene dal panorama cantautorale; io ho fatto stoner, psichedelica e suono in un gruppo trip hop… quindi abbiamo unito i suoni, la passione per lo strumento e gli ascolti fino ad arrivare al minimo comune denominatore
Per la realizzazione del disco Parados quanto e come avete lavorato?
S: Dal punto di vista pratico, ci ha influenzato molto l’aver registrato in due studi diversi. Ciò ha significato arrivare con un’idea, poi evolverla e stravolgerla nel primo studio e poi ancora in un altro. Questo passaggio ci ha influenzato molto, nel bene e nel male. È stato in parte una scelta e in parte un’occasione: abbiamo vinto il premio SAE Institute al MI AMI 2013 che ci ha dato l’opportunità di registrare i pezzi da loro, mentre l’altra parte abbiamo deciso di registrarla a Bologna con Giacomo Fiorenza al 42 Records. Sono studi molto diversi fisicamente e nell’approccio alla registraione. Questo ci ha fatto crescere, sicuramente
Siete contenti del risultato?
A: Guarda, non diremo che è tutto bello perché c’è stato tanto sangue, tanti scazzi e problemi. La parte a Bologna è venuta prima: lì abbiamo registrato sei pezzi di cui uno è stato scartato, quindi c’era anche la frustrazione di aver impiegato energie e tempo per un pezzo che noi pensavamo fosse il singolo e poi è stato scartato. Quando ti metti in gioco, ti metti anche di fronte alle tue debolezze e lì è venuto fuori un nuovo carattere più maturo, anche dal punto di vista del suono. Questo poi si è concretizzato nella sessione SAE dove, forti dell’esperienza precedente, siamo riusciti ad essere più diretti.
Come stanno andando i live?
A: Diciamo che ormai siamo abili a rimescolare le carte in base alle situazioni. È questa la cosiddetta gavetta/esperienza/maturità artistica: tutti questi discorsi alla fine si concretizzano nell’atto pratico del saper gestire i problemi e nel saper suonare nel miglior modo possibile in qualsiasi situazione. Suonando tanto e in diverse situazioni, impari molto di più sulla tua musica e sul pubblico che hai di fronte. Anzi, è il pubblico che ti fa capire che musica stai facendo.
Dipende molto anche dal luogo in cui suonate. I vostri testi parlano di temi importanti, molto radicati nella realtà, perciò in determinati luoghi avrete più supporto e coinvolgimento da parte del pubblico rispetto ad altri. Forse questo potrebbe essere anche un limite. Come mai avete deciso di trattare questi temi, come la questione dei diritti civili presente nel brano Sylvia Rivera o la politica in L’anarchica?
Luca (L): L’urgenza comunicativa per me va di pari passo con la ricerca musicale. Determinati temi per me sono importanti e non sono da nascondere, perché suonare è un modo per comunicare qualcosa. Quello sul quale non cerchiamo di fermarci è sull’aspetto testuale, ma di lavorare molto sulla musica, come può aver fatto Lou Reed che scriveva dei pezzi pazzeschi ma li ha presentati in una forma di rock inedita ai tempi.
Beh non è detto che una cosa escluda l’altra, anzi forse è proprio questa l’unicità dei Parados: il fatto di avere una musica molto curata e raffinata, unita a dei testi importanti. Prendiamo L’anarchica nel cui ritornello parli della democrazia come “bellissima fotografia la cui cornice azzurra sono caschi della polizia” È un’immagine forte da proporre. La domanda che mi viene da farvi è: i Parados fanno musica “politicamente impegnata”?
S: Io no!
L: Ovviamente sono testi legati al personale, che però è difficile da scindere dal politico. Quando ho scritto L’anarchica non avevo mai militato in un collettivo, e averla scritta mi ha portato immediatamente ad avvicinarmi a una realtà di quel tipo per avere un riscontro. Avevo paura di dire cose che non avevo mai toccato con mano. È davvero importante sempre avere un riscontro concreto di quello che dico.
A: Le canzoni vengono fuori in base ai tempi e alle impressioni di chi le scrive in quel dato momento. La soddisfazione dell’artista e del fruitore della musica sta nell’incontro degli intenti, cioè quando entrambi arrivate allo stesso obiettivo e non quando il tuo messaggio viene travisato. Non si tratta di fare musica impegnata, ma di avere un messaggio ben preciso che arrivi diretto al pubblico. Poi la musica parla da sé.
Questo succede benissimo con Toracica, dove prima arriva la musica e solo dopo il testo. Appena l’ascolti pensi ad un cuore che batte in una cassa toracica. Poi ascolti il testo e capisci che parla di sentimenti umani, facendo una riflessione sull’amore come costrutto socio-culturale. Poi, chiaramente, ognuno interpreta le canzoni come vuole, però ogni tanto forse è meglio scrivere testi sensati invece di dire sempre stronzate! O no?
A: Non so, i Muse scrivono dei testi che non vogliono arrivare da nessuna parte, ma sono funzionali alla loro musica, perché loro accompagnano il loro arrangiamento con figure epiche, immagini di paesaggi vasti e visioni apocalittiche. La cosa funziona è questo è l’importante, perché le canzoni devono funzionare, devono “girare”. Sta al gruppo decidere gli ingredienti da dosare. Forse quello che è accaduto finora nei Parados, è che viene tutto dai testi di Luca e prende forma musicalmente successivamente. Adesso stiamo cercando di fare anche un po’ diversamente, mantenendo l’obiettivo di dare un senso compiuto, una sostanza percepibile e un po’ di coerenza. A noi piace la coerenza: anche se presi singolarmente siamo le persone più incoerenti del mondo, magari insieme riusciamo ad esserlo!
Voi siete tutti di Milano: com’è essere musicisti in questa città?
L: Dipende dai cocktail party in cui vai!
A: Milano soffre del problema dello snobismo e del parlare a vuoto. Io sono dell’idea che se hai un po’ di forza di volontà e di curiosità, riesci a trovare tante realtà musicali.
S: La musica a Milano va abbastanza a zone. Pensare di suonare della musica indipendente qui al’Ex Cobianchi, sotto al Duomo, è una cosa fantascientifica per Milano. Ha qualcosa di miracoloso!
Spesso i musicisti mi raccontano di non essere soddisfatti di come vengono gestiti i concerti: ritardi nella scaletta, impianti inadatti, niente cachet, niente cena… Voi che ne pensate?
S: Non c’è (o non c’è ancora, speriamo) questa cultura del locale che diventa una culla per portare fuori quello che è il lavoro musicale di una band nella maniera più alta possibile in termini di qualità, in modo che chi viene a sentire il concerto possa veramente godere dello spettacolo. Speriamo che la situazione cambi!
L’ultimo concerto a cui siete stati?
S: Dream Koala qui allo Spazio Ex-Cobianchi
Giorgio: Io sono stato al Sonar
E ancora ti devi riprendere mi sa! Alberto e Luca?
A: Nils Frahm al Magnolia: bellissimo!
L: Al Magnolia c’ero anch’io. E poi Terraforma