RECENSIONE: Alessandro Fiori – Plancton (2016, Woodworm)

Recensione di Gustavo Tagliaferri

Fuori dai Mariposa non si può certamente dire, come purtroppo per altri personaggi assai blasonati, che una certa inventiva sia venuta meno, anzi, è sempre più evidente che la fase in corso abbia trovato in “Attento A Me Stesso” e “Questo Dolce Museo”, con in mezzo “Cascata” ed i Betti Bersantini condivisi con Marco Parente, le conferme del fatto che si possa concepire un songwriting sanguigno, riconoscibile per quel che è, ove l’introspezione è tale da tendere a volte all’astratto, in un’antitesi d’autore tra infanzia e maturità, tra impressionismo ed espressionismo, come delle tele che quotidianamente vengono sfregiate con un tocco d’autore sempre avvertibile, una regolarità di suono che subisce man mano mutazioni irreversibili. Alla luce di ciò, dei suoi 41 anni e di come si presenta dal primo impatto il lavoro in esame Alessandro Fiori è riuscito in un obiettivo che altri molto più giovani ed in voga negli ultimi mesi non sono riusciti a portare a termine, per quanto siano dotati delle tecnologie moderne, ovvero la concezione di un possibile trampolino di lancio dal quale sublimare gli insegnamenti di rilievo di certa musica sperimentale passata e presente con una corrente d’autore nel reale senso della parola. “Plancton” rovescia in maniera ancor più evidente il concetto di musica d’autore e probabilmente l’esempio lapalissiano andrebbe trovato in Piazzale Michelangelo, che gioca con il folclore popolare, le follie nipponiche e le drum machines 80’s finendo quasi per coadiuvarsi con espedienti psych-60’s ed affini anche a certa scuola di Canterbury e subentrare dulcis in fundo in assillanti frequenze techno-noise. Ma è solo un tassello dell’universo stralunato in cui l’artista aretino si inserisce: come il loop di Margine presenta ispirazioni glitch condite con installazioni french à la AIR il proclama di Mangia!, da divertissement acustico, ipotizza una jam sospesa tra Mouse On Mars e Matmos, là dove dei beats electro a mò di tinte industrial caratterizzano la soffocante eppur beffarda Galluzzo e le tentazioni dello stream of consciousness di Ho paura, pur alleviate da un harmonium, lo stesso che laicamente e quasi in solitaria traccia il profilo di un’insolita Madonna con bambino rubato, sanno di ambient e di nastri rovesciati memori degli Autechre maggiormente ispirati, lo stesso ambient al centro di un’Aaron che nell’addentrarsi nella dimensione lavorativa lascia avvertire dei germi lo-fieggianti, mentre Ivo e Maria sembra narrare una storia d’amore da film horror post-moderno che tra macchine da scrivere ed allucinazioni collettive culmina in un coacervo di struggenti archi. Ciliegina sulla torta, tanto la titletrack quanto Sereno, nel loro essere prive di parola, illustrano un panorama segnato prima da un graduale excursus di battere e levare con tinte kraut-wave e poi da una cadenzata e metallica traversata che d’improvviso si spoglia di ogni sentore lugubre, aprendosi ad un domani ignoto, tuttavia forse colmo di maggiore solarità. A rimanere in mano è un disco forse ostico per coloro che sono maggiormente affini ad una forma di musica d’autore sin troppo basilare, ma alla luce dei concetti di progresso e contaminazione “Plancton” è una felicissima sorpresa per lo stivale ed un nuovo punto di partenza per Alessandro Fiori, ora più che mai necessitante di maggiore considerazione e seguito di quello che effettivamente ha. Da non perdere.
14708087_10154664131254700_5155171919241699504_oAlessandro Fiori – Plancton
(2016, Woodworm)

1. Aaron
2. Plancton
3. Piazzale Michelangelo
4. Margine
5. Ho paura
6. Ivo e Maria
7. Galluzzo
8. Mangia!
9. Madonna con bambino rubato
10. Sereno

 

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