Live report di Laura Faccenda
Ho visitato molti luoghi in questi venticinque anni ma non sapevo che esistesse un posto così bello.
Sono queste le parole di Eddie Vedder sul palco del Teatro antico di Taormina, per la seconda data siciliana, a chiusura del tour europeo. Ed ha ragione. Lo scenario è magico.
Le mura antiche iniziano ad accogliere fans provenienti da tutto il mondo, Chicago, Brasile, Sud Africa, Argentina, già dal tramonto. I raggi del sole si fondono con gli effetti delle luci colorate sullo sfondo. Esce Glen Hansard con la sua chitarra. Non sono ancora tutti seduti, si danno le ultime disposizioni organizzative e questo non permette, inizialmente, di ascoltarlo con la dovuta attenzione. L’irlandese continua a suonare, picchia potente sulle corde, sono visibili i segni della passione e del sentimento sul legno del suo strumento. Si comincia davvero, adesso.
Viene invitato un suo amico sul palco, compagno di vita quotidiana e professionale, e si esibiscono in un duetto: sembra una rimpatriata, quasi una jam session e, per un momento, diventiamo tutti quei ragazzi seduti attorno a un fuoco, o su un muretto, in una calda serata estiva. Dopo aver ringraziato il pubblico ed essersi guardato ancora una volta intorno, incredulo dello spettacolo offerto dall’anfiteatro, Hansard lascia il palco, va a sedersi sulle gradinate e si gode lo spettacolo da lì. Una pausa di dieci minuti per riassestare la scenografia, sistemare le chitarre, attaccare solidamente i fogli della setlist alla ormai famosa valigia che arreda il palco. Il bicchiere, pieno, rossastro, al lato dello sgabello. È tutto pronto.
Sulle note del jingle Toulomne, Eddie Vedder entra in scena, tiene un cappello da turista sulla mano destra e, davanti alla folla, grida Buonasera! Trouble, cover di Cat Stevens, dà il via ad un concerto intimo, partecipato, in cui l’artista dimostra vicinanza ed empatia. Non mancano le dediche: suona Here comes the sun (accompagnato dal The Red Limo String Quartet) dedicata al sole siciliano; You’re True alla moglie Jill che lo guarda con occhi orgogliosi ed emozionati dal lato del palco, insieme alle due figlie: “L’ho conosciuta in Italia, ma non è italiana… anche se vorrebbe esserlo!” – scherza Vedder rivolgendosi alla compagna – “Se un giorno vi troverete con dei vicini rumorosi che ascoltano musica fino a tarda notte… beh, potremmo essere noi!”, conclude ridendo.
Si alternano chitarra ed ukulele, l’aria si riempie di note calde, corpose, avvolgenti. Si aggiunge anche l’organo, dove il cantante si siede ed intona I’m so tired (Fugazi): per tutto il tour, è stato considerato un omaggio a Chris Cornell, amico e collega scomparso tragicamente nel maggio scorso. La commozione è alle stelle, il riferimento è tanto implicito, quanto esplicito per tutta una generazione musicale che ha sofferto così tanto quella perdita. Si continua sulla stessa linea con Imagine (John Lennon/Yoko Ono) ed Eddie ricorda quanto accaduto durante la data al Firenze rock, quando una lucentissima stella cadente, sul quel brano, ha squarciato il cielo. Invita ad accendere la torcia dei telefoni e, in un attimo, l’anfiteatro si trasforma una distesa luminosa: 4.500 lucciole, scintillanti, in un semicerchio. Un abbraccio unico con gli occhi al cielo per credere e sperare, ancora.
Quando poi, il riff iniziale introduce Black, si tocca la vetta emozionale. È una specie di mantra per la “famiglia Pearl Jam”. Voce, chitarra e quartetto d’archi, in un effetto orchestrale. Torna la preghiera, sul finale, Come Back, come back che non si può non indirizzare a Cornell. Il pubblico continua a cantare il celeberrimo tururuttutururu all’inifnito, Vedder si lascia trascinare, suona per loro. Quasi nove minuti di brividi. Sale di nuovo Gleh Hansard sul palco, per le battute finali. I due artisti si alzano in piedi e sfruttano l’acustica e il silenzio sacro dell’anfiteatro: nessun microfono, nessun amplificatore, solamente la potenza della voce in Sleepless Nights. Momento comico e profondamente umano quello in cui è invitato sul palco il simpatico Fabrizio, ragazzo che era riuscito ad incontrare Eddie nel pomeriggio, in spiaggia. Viene fatto sedere, gli viene offerto un bicchiere di vino e assiste a tutta l’esecuzione di Smile, con lo sguardo di chi realizza un sogno, di chi porterà sempre con sé quell’incontro inaspettatamente ravvicinato.
Già durante Rockin’ in the free world, classica cover dell’affezionato “zio Neil”, si intravedono spuntare i camici bianchi, immancabili per il pezzo di chiusura. Si preparano i ragazzi del Red Limo String Quartet. Hansard, la figlia minore, porge il camice al padre e torna dalla sorella, pronta anche lei.
Vedder accende il registratore a doppio nastro. È una festa, tutti in piedi a cantare Hard Sun. Lo storico frontman dei Pearl Jam corre da una parte all’altra del palco, saluta, si avvicina alle persone. Batte energicamente sulle corde della chitarra, torna per un attimo il ragazzo che si dimenava ai concerti, con i vestiti ridotti a brandelli, con i salti nel vuoto, con gli stage diving sulla folla. Più di una volta si ferma ad ammirare lo spettacolo, dalla sua prospettiva, incorniciato da quelle mura antiche, confessando tutta la sua gratitudine a chi lo ha sempre seguito, a chi continua a seguirlo, a chi lo rende forte. Si conclude con il salto con la chitarra, che ormai è diventato un rituale. Esce, ma è come se non riuscisse a distaccarsi in modo netto da tutti i presenti. Allora decide di rientrare, augura tutti la buonanotte in maniera dolce, pacata, come un padre, un amico, una persona cara: Dream a Little Dream arpeggiata con l’ukulele.
Un concerto, un sogno, che continua.