Recensione di Gustavo Tagliaferri
Come un graffito, tracciato su un muro bianco, nel quale risultano distinguibili molti, molti colori. Caleidoscopico è il senso risultante, che ininterrottamente presenta lo stesso impatto di un tumulto tellurico che man mano finisce per estendersi sul terreno circostante, con la differenza che l’unico concetto ad essere messo in discussione è quello della staticità di certe cose, perlomeno in musica. I cinque ragazzi che compongono i Mòn, effettivamente, all’apparenza possono far pensare ad una solfa già proposta altrove, ma non è così, poiché non sono avvezzi alla staticità, semmai intenti a costruire arrangiamenti che saltellano qua e là tra una corrente e l’altra. E’ qui che il concetto di caleidoscopico ha la meglio, specie se l’ottica nel quale interpretarlo è in primis quella islandese. “Zama” è un esordio apparentemente strano eppure immediatamente accessibile, che dal primo ascolto dà la stessa impressione di un paesaggio multifunzionale e con il quale interagire, le cui peculiarità a loro volta risultano inserite in contesti ancor più vasti. La natura indie rock dei ragazzi non passa inosservata e presenta molteplici variazioni, già dai germogli disseminati in primis dall’apertura di Lungs, che a sua volta funge da base attraverso cui distribuirli per tutta l’opera: se in questi l’Islanda, se non un sound nordico in toto, è tanto imperante da estendersi attraverso espedienti in parte post-rock, in parte atmosferici, lievemente à la Balmorhea, in parte folktronici e dulcis in fundo electro-rock, è proprio da quest’ultima variante che i presupposti per un futuro invito alle danze non vengono meno, visti l’excursus di Forest Of Cigarettes, composizione in cui il funk mitteleuropeo, da semplice parentesi, diventa una regola, ed un’Alma che, a giudicare dall’attenzione rivolta alla sezione ritmica da parte di Dimitri Nicastri, pare voler tracciare un ponte levatoio tra echi dub ed espedienti disco, mentre con Fluorescence si alzano ulteriormente i distorsori quando incombe il refrain di turno, così come nei riff, nel coro portante, una simil-sbornia post-Pogues, e nel coacervo di arpeggi che sopitamente richiama una natura psych che ferocemente portano avanti la chiusura affidata a To Marianne. Una cornice in cui, sì, c’è l’Islanda, ma anche un po’ d’Inghilterra, ed a tal proposito la band non disdegna neanche il mood dei Belle & Sebastian, parzialmente udibile in quel della solare The Flock, a giudicare da come è messa a fuoco l’armonizzazione vocale tra Rocco Zilli e Carlotta Deiana, un’ottica pop ben applicata anche nel corso di Fragments, che contribuisce alla creazione di un magma sonoro che probabilmente meglio rappresenta il senso dell’album. Non da meno certe influenze dreamy che passano da Mutter Nacht ad Indigo, quest’ultima celante un senso di ascensione, tipico di una ninna nanna angelica che tra campanelli ed organi trascende qualsiasi concetto di tempo e spazio e finisce per divenire oggetto di un grammofono, mentre That Melts Into Spring è la suite del lotto, che parte ipotizzando un mix tra il sapore di una ballad e la cupezza di certi blues e continua dando il La ad un variegato e sempre più nervoso incedere alla cui conclusione segue un ritorno a quella pacatezza facente da fulcro principale. Varietà, mai pesantezza: forse è questo il sunto che meglio incarna la formazione romana e che contribuisce a fare di “Zama” un lavoro affascinante, rivestito di freddo invernale ma anche di freschezza autunnale e primaverile. Assai consigliato.
Mòn – Zama
(2017, Urtovox)
1. Lungs
2. Alma
3. The Flock
4. Forest Of Cigarettes
5. Indigo
6. Fluorescence
7. Fragments
8. That Melts Into Spring
9. Mutter Nacht
10. To Marianne