RECENSIONE: Klimt1918 – Sentimentale Jugend (2016, Prophecy)

Recensione di Gustavo Tagliaferri

Il silenzio. Come in un luogo privato delle proprie risorse primarie situato in una dimensione lontana da tutto e da niente. L’ambiente ideale per dei guerrieri soli contro il mondo, intenti a combattere contro dei mulini a vento inesistenti senza nemmeno un abito da condottieri? Oppure dei principi spogliati dei loro averi che lottano pur di raggiungere una sposa persa in una nebbia così fitta da sembrare inesistente? Condizione vitale e/o sociale che sia, il freddo una volta che lo si vive dentro può segnare per sempre, e con esso in primis la ramificazione luciferina per eccellenza, il totale gelo. Cosa che va di pari passo con un tormentato iter quale quello in esame, soprattutto otto anni dopo la pubblicazione di “Just In Case We’ll Never Meet Again (Soundtrack For The Cassette Generation)”, un periodo che ha visto quattro ragazzi capitolini fare il punto della situazione sia a livello personale che a livello compositivo, testuale, concettuale. Un disco non necessariamente può essere pubblicato a mò di catena di montaggio. Un disco certe volte necessita davvero un’attenta lavorazione, un operato certosino che al contempo non sfoci nel perfezionismo a tutti i costi tipico di chi oramai ha basato la propria esistenza sulla rendita, sui soliti accordi e sull’incapacità di essere davvero un artista.

I Klimt1918, a tal proposito, si sono sempre distaccati da quest’ultima logica, affascinati come sono dall’estetica e dalla continua ricerca, rappresentata da sonorità che non risultano mai fini a loro stesse, tanto devote ad un’ottica 80’s quanto decisamente puntate verso il futuro, nel nome di un’altra forma canzone di cui si sono fatti tra gli adeguati portatori. “Sentimentale Jugend”, probabilmente, è quel concept album che ancora non avevano realizzato pienamente, pur mantenendosi sempre su livelli eccelsi nel percorso che da “Undressed Momento” ha in seguito portato ad un’evoluzione passata per “Dopoguerra”, e proprio per questo rappresenta il raggiungimento di un obiettivo, l’elevazione del proprio io che va di pari passo con la via di fuga tanto bramata dallo stato di perdizione di cui sopra. Intimo, ma non per questo lontano dal risultare diretto e di forte impatto, oltre che dal sapore berlinese.

Lo testimoniano i due CD in cui si divide l’opera, che sembrano sintetizzare nel miglior modo possibile il viaggio effettuato durante il concepimento, dove i molteplici espedienti della musica risultante guadagnano una forte voce in capitolo: ne sono un ideale esempio quelle dilatazioni shoegaze mosse da un tono regale, a giudicare dal sommesso incedere di tamburi man mano sempre più ferrato, su cui si estende Montecristo, e di conseguenza la voce di Marco Soellner, che sembra filtrare la classe tipica di un Neil Tennant immergendola in un contesto in cui la club culture inglese è sconosciuta ed è presente al suo posto una tendenza ad un clima da grande depressione, una guerra fredda ove l’urlo è la migliore arma alla quale affidarsi, se non magari lo stesso urlo che, attraverso un crescendo, si fa strada una volta che parte The Hunger Strike, ideale collante per un appuntamento con la storia passata e presente il cui galvanizzante uso di fiati synth-etici vanno a nozze con l’invito ad una rivoluzione interiore, non a caso idealmene collegata ad un brano di lancio di tutto rispetto come Comandante, che partendo dalla separazione della figura di Ernesto “Che” Guevara dal relativo contesto storico fa di essa uno spettro che infesta l’apocalittico e rivoluzionario excursus risultante, tipico di una composizione fantasmagorica, magari disseminando i germi di una rivolta la cui forma di espressione trova adito nel corso di Gaza Youth (Exist/Resist), un imperituro diluvio di sei minuti ove il limite tra paradiso ed inferno, che questi esistano o meno, supera ogni illusione, dove ognuno dei musicisti ricopre un ruolo fondamentale, dalla narrazione disperata di Soellner alla performance del fratello Paolo, la cui batteria pare mimare il suono dei bombardamenti, fino alle chitarre di Francesco Conte, che nel loro impeto mettono alla luce il rischio di un’inondazione. Sembra la traversata dell’arca di Noè, ma è l’eterno conflitto tra Palestina ed Israele.

Tuttavia non è solo la storia quella che incide sul risultato complessivo, ma anche la manifestazione di sensazioni di molteplice fattura, in qualunque parte del mondo ci si trovi. Là dove altri personaggi si focalizzano sull’ansia e sul disagio, qui vi è spazio per la malinconia annuvolata che si districa tra le note, sempre più violente, di Belvedere, lo struggente pessimismo che si riflette con l’ausilio delle waveggianti dissonanze di una vorticosa La notte, il cui ideale contraltare è rappresentato dal robotico scorrere di Fracture, mentre, lievemente memore dei Cocteau Twins, se non dell’intero universo 4AD, predomina una certa solarità quando parte It Was To Be, laica preghiera per arpeggi di chitarra, e che si ritrova faccia a faccia con le tenebre nel corso della disperata Resig/Nation, che lascia intravedere delle sfumature quasi teatrali. Sensazioni che vanno di pari passo con il desiderio da parte dei Klimt1918 di risultare tutt’altro che statici nel proprio intento, passando dal volgere un occhio verso certi dei migliori U2 (chi ha detto “The Joshua Tree” ed in particolare “Mothers Of The Disappeared”?), vedesi l’apparentemente rilassata Unemployed & Dreamrunner e l’intima Ciudad Lineal, a loro volta prossime ad esplodere nelle incessanti chiose di chitarra di Conte, oramai più che una garanzia, ed in metamorfosi fatte di marzialità che si estendono a macchia d’olio ed il cui spunto parrebbe essere un mix tra Slowdive e Coil (!), al tentativo di avvicinarsi un po’ di più al concetto basilare di rock, che incombe improvvisamente e prepotentemente con Sentimentale e successivamente la nervosa Sant’Angelo (The Sound & The Fury), per poi trovare lo zenith nello spoken word alla luce della parentesi di Caelum Stellatum, post-rock nell’effettivo senso del termine, Explosions In The Sky in endovena, tappeto rosso su cui si posa la cavalcata Juvenile.

E’ la forma canzone portata a livelli eccelsi, ma che non tralascia affatto la sua concezione originaria: Once We Were ha il compito di toccare corde pop già assassine di per sé, ma che risultano capaci di raggiungere a loro volta il Nirvana tanto rimescolandosi con il sapore post-rock che prende vita in uno, in tanti fermo immagine di memoria sovietica, magari il patrimonio di Andrej Tarkovskij e di quella Nostalghia che fuoriesce dalla splendida dimensione cinematografica sovrapponendosi con la realtà, quanto con la riproposizione di quella Take My Breath Away portata al successo dai Berlin, vissuta intensamente attraverso quel “Top Gun” tanto rappresentativo di parte della gioventù di allora ed ivi presente sotto forma di ninna nanna post-mortem, tepore ideale a cui affidarsi in un mondo sempre più dilaniato da un caos sinistro sotto ogni aspetto. Dulcis in fundo Roma, ancora Roma, non quella narrata dalle buone anime di Gabriella Ferri e Lando Fiorini, ma quella vista da Pier Paolo Pasolini, ivi omaggiato, quella Stupenda e misera città da cui alla fine, malgrado l’odierno grigiore ed una popolazione, ormai purtroppo neanche più della città in questione, spaesata ed impossibilitata a cercare stimoli e covare sogni, non ci si riesce a distaccare del tutto: terra madre, che piaccia o no, pregna di odi et amo e che viene idealmente rappresentata da un boato di distorsioni ed arpeggi dall’andamento cadenzato, nucleo di una composizione di base dominata da echi ambient.

L’arsenale è ingente e l’interrogativo sorge spontaneo: c’era davvero bisogno dopo tanti anni di queste canzoni senza pensare abbastanza all’idea di snellire il tutto? Dubbio che non dovrebbe nemmeno porsi e che trova unicamente una risposta affermativa: “Sentimentale Jugend” è un disco unico, è l’emblema di un’attesa tanto impazientemente trascorsa e fortunatamente tutt’altro che tradita. Un capolavoro? Assai probabile. Certamente un colpo portato enormemente a segno dalla band romana, uno dei reali orgogli nazionali degli ultimi vent’anni. Senza alcun calo di stile.

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(2016, Prophecy)

CD 1:
1. Montecristo
2. Comandante
3. La notte
4. It Was To Be
5. Belvedere
6. Once We Were
7. Take My Breath Away
8. Sentimentale
9. Gaza Youth (Exist / Resist)

CD 2:
1. Nostalghia
2. Fracture
3. Ciudad Lineal
4. Sant’Angelo (The Sound & The Fury)
5. Unemployed & Dreamrunner
6. The Hunger Strike
7. Resig/Nation
8. Caelum Stellatum
9. Juvenile
10. Stupenda e misera città

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