LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: MARCO RÒ

Intervista di Gianluca Clerici

Con il cantautore romano Marco Rò torniamo a mescolare l’arte alla società. Quando la canzone d’autore si fa portatrice sana di messaggi umanitari, che partono dal nostro quotidiano e arrivano ai grandi eventi del mondo. E il lavoro giornalistico della compagna Laura Tangherlini arricchisce, contamina e completa il tutto. In una chiave pop che un poco cerca altrove le soluzioni di suono e di gusto. Tornando in Italia si fa di conto con la nostra società fintamente culturale. Ecco il punto di vista di Rò alle consuete domande di Just Kids Society:

Fare musica per lavoro o per se stessi. Tutti puntiamo il dito alle seconda ma poi tutti vorremmo che diventasse anche la prima. Secondo te qual è il confine che divide le due facce di questa medaglia?
Io credo che chiunque faccia musica seriamente lo faccia per esprimersi e comunicare, azioni che presuppongono la migliore riuscita quanto più questa comunicazione è diffusa e veicolata. Sinceramente non vedo confini, se non quelli dettati dalle motivazioni che esistono alla base, e più in generale dall’attitudine al confronto. Uno dei miei primi maestri, una volta mi disse: se vuoi fare la tua musica solo per te stesso, puoi salire su una montagna con la tua chitarra e suonare e cantare tutto quello che ti pare nel modo che preferisci. Ma se vuoi che la gente ti ascolti, non puoi fare a meno di ascoltare a tua volta la gente.

Crisi del disco e crisi culturale. A chi daresti la colpa? Al pubblico, al mercato, alle radio o ai magazine?
Direi che è un cane che si morde la coda, visto che pubblico, mercato, radio e magazine sono soggetti che in fondo si influenzano a vicenda. A mio parere la crisi culturale è la causa, non l’effetto.

Secondo te l’informazione insegue il pubblico oppure è l’informazione che cerca in qualche modo di educare il suo pubblico?
Un discorso molto complesso, che attiene al ruolo sociale dell’informazione, e a cosa noi intendiamo per essa. La sensazione, per restare in tema musicale, è che si vada verso una omogeneità di forme e contenuti, una sostanziale catalogazione in generi (target di mercato?) ben definiti che bene non fa al “prodotto arte”. Per dirla in altre parole, trattare un artista, un disco, una canzone, come se fossero (solo) prodotti da piazzare, finisce per danneggiare chi il prodotto lo “usa” e chi il prodotto lo fa.

La musica di Marco Rò è musica d’autore che parla la lingua di tutti anche se di quando in quando cerca di scavalcare le forme tradizionali. In qualche modo si arrende al mercato oppure cerca altrove un senso? E dove?
Credo nell’efficacia della semplicità, nel suo potere comunicativo ed evocativo. Ma mi piace anche sperimentare, soprattutto nei testi, senza necessariamente trascendere nell’ermetismo, a volte fine a sé stesso.

In poche parole…di getto anzi…la prima cosa che ti viene in mente: la vera grande difficoltà di questo mestiere?
Emergere è difficile e lo è sempre di più. Anche se ritengo che il problema più grande sia nel capire, soprattutto per chi comincia ora, che il successo non è solo quello “mediatico”, ma sta soprattutto nel riuscire a trasformare il proprio bisogno comunicativo in qualcosa di bello e condiviso.

E se avessi modo di risolvere questo problema, pensi che basti?
No, perché le dinamiche e le variabili in gioco sono comunque molteplici. Ma credo sia un passo necessario perché si dia di nuovo spazio alla musica che ha qualcosa da dire, e che per farlo ha bisogno di tempo.

Finito il concerto di Marco Rò: secondo te il fonico, per salutare il pubblico, che musica di sottofondo dovrebbe mandare?
Gravity, di John Mayer. Lasciarsi andare alla magia della musica, godersi il viaggio.

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