IL TRIP: Come si fa la révolution – Il Muro del Canto, Controvento [2/08/21]

Racconto a cura di Valentina Calissano

Illustrazione a cura di Eliana Guarino

Il Trip

Il Trip. L’ispirazione.

L’ispirazione per questo Trip è stata la canzone Controvento, il nuovo singolo de Il Muro del Canto, pubblicato il 2 agosto.

Questa volta si viaggia verso Roma, una città vasta, strabordante e spesso caotica. Lungo le strade che si intrecciano come matasse, si nascondono segreti che nessuno vuole vedere. Al buio dei vicoli più interstiziali si consuma, nel silenzio generale, la violenza.
Ma dal buio può anche anche rinascere una speranza, la luce di una rivoluzione che non fa rumore e morti.

Come si fa la révolution

Non sono neanche le otto e un quarto del dodici agosto e Gianmarco ha già alzato la saracinesca. Lo vedo rubare l’ultimo tiro alla sigaretta mentre mi accosto con la Vespa al parapetto sul fiume.
Anche stamattina il Tevere è tranquillo, quasi immobile nella brezza del mattino. In confronto al baccano che soffia dietro, sembra zitto zitto, acquattato come un gatto che aspetta la pappa pronta.

Dò il buongiorno al mio capo: «Gianmà, ma non avevamo detto alle 9? Dai, che fa freddo stamattina!».
Come i giorni scorsi indossa una camicia a quadri con le maniche corte e non rinuncia alle bretelle; dopotutto in loro assenza i pantaloni non riuscirebbero a stare in piedi, su quel corpo longilineo e gracile. In cima alle spalle secche troneggia una barba corta e larga, scura, riccioluta e ben curata. A volte mi dà l’idea di un Che Guevara che ha deciso di fare il boscaiolo, gli mancano solo i capelli. È completamente calvo.
«Ma se ti ho detto di venire prima un motivo ci sarà, no? Sbrigati». Mi risponde in uno sbuffo, mentre si gratta nervosamente la schiena con la punta delle dita.
Sto ancora mettendo la catena, lui invece ha già spento il mozzicone e si è chiuso la porta alle spalle.
I vetri fanno un frastuono che scuote pure gli alberi, tremando in mezzo allo scotch. A guardarlo da qui, potrebbe essere anche un mosaico, o un intenzionale attacco d’arte creato appositamente per riciclare vecchi pezzi di vetro altrimenti pronti per la discarica, tanto per trovare una scusa che dimostri quanto il nastro carta sia forte, resistente, potente.
E invece trema tutto.
E non è un attacco d’arte. Quel vetro l’ho rotto io.

Perché l’ho fatto? Perché si. Perché sono stufa di una realtà che mi ruba tutto e non mi dà niente. Perché la scuola fa schifo, perché gli insegnanti non fanno altro che cercare di indottrinare gli studenti, perché i libri costano e non li voglio più comprare. Tanto poi ogni volta li devo buttare. E nemmeno me li studio. E così un giorno, che passavo di qua con la mia banda, per farmi giustizia da sola, ho preso di mira questo negozio, la libreria di Gianmarco. Ho veramente preso la mira, con un sampietrino, e ho colpito in pieno la porta a vetri.
“Che si fotta il sistema!” ho gridato, aspettando il coro dei miei compagni. Ma non è arrivato. Sono tutti scappati a gambe levate e al loro posto ho trovato due guardie che non vedevano l’ora di portarmi in centrale.
In effetti dovrei ringraziare Gianmarco se sono ancora in giro. Si è presentato alla stazione di polizia, ma non ha chiamato avvocati, ha parlato direttamente con gli agenti. Non so come li abbia convinti a non mettermi dentro, non so neanche perché alla fine mi abbia difeso. Aveva tutti i buoni motivi per prendersela con me e invece mi ha fatta uscire in meno di un’ora. Naturalmente mi ha chiesto qualcosa in cambio.
Dunque, ogni giorno di questa maledetta estate, mi alzo alle otto e vengo qui. Apriamo insieme la libreria, puliamo, scarichiamo i nuovi arrivi e portiamo a termine tutte le commissioni da sbrigare. Fantastico, vero? Mi sa proprio che me lo merito.

Stamattina però è diverso. Mi ha chiamata alle sette, chiedendomi di andare subito da lui per anticipare i giri. Mi chiedo cosa abbia in mente, così all’improvviso.
«Allora,» esordisce quando finalmente lo raggiungo in fondo al negozio, «oggi dovrai fare un nuovo tipo di commissione per me. Visto che hai una bella scheggia rossa fiammante e che non possiamo far venire qui la gente, dovrai andare tu dai clienti, farai le consegne!». E picchia una mano su uno zaino gigante pieno come un uovo. No, non ci posso credere. Proprio non ci vedo più. Ora capisco perché mi ha salvata dalla polizia. Questo mi vuole sfruttare!

«No, Gianmà. Così no, così è una galera!», gli occhi al soffitto e le braccia spalancate, svolazzanti nell’aria. «Ho capito che sono in debito, ma così no. Ora devo fare pure la rider? Ci devo rimettere la reputazione? La benzina? No…» traccio due giri volteggiando su me stessa e poi punto alla porta, «io me ne vado».
Sono arrivata all’ingresso, la mano sulla maniglia e lui mi blocca tenendomi per il polso.
«Alt! Ferma là». Mi giro e sta facendo finta di puntarmi una pistola in faccia, ma sorride. «Se ti avessi chiesto di rimanere qua dentro mentre io me ne vado in giro con la tua Vespa, allora avresti potuto ribattere. Allora si che sarebbe stata una galera. E invece ti chiedo di uscire, di fare quello che ti pare. L’importante è che la sera mi riporti lo zaino vuoto e le ricevute dei clienti. Che vuoi di più? Non sei contenta?».
Ecco, vista così poteva essere allettante. Se non altro, non avrei dovuto continuare a spolverare copertine di libri o sistemare la vetrina o rispondere a stupide inutili email, eccetera eccetera. Torno indietro sui miei passi, metto in spalla lo zaino e attendo sue istruzioni.

Davvero, non è male questa idea delle consegne. Ora che il sole si è alzato fa anche caldo, ma sul motorino, con il venticello che rinfresca, si sta proprio bene. Il quartiere è piuttosto silenzioso e non trovo grandi intoppi o brutte sorprese. Un campanello dopo l’altro il primo giorno è andato.
Passo attraverso la porta che si regge in piedi grazie al miracolo dello scotch carta e vado direttamente da Gianmarco, che mi attende dietro al banco. Picchietta i tasti di una piccola calcolatrice posata davanti a sé, mentre mastica il cappuccio di una biro blu.
«Primo giro finito!».
Prende i foglietti delle ricevute, li conta e li riordina come fossero un mazzo di banconote. Mi guarda e sorride. Sembra soddisfatto.
«Vedrai che così faremo del bene nel quartiere!».
Non capisco cosa voglia dire, non lo capisco mai ogni volta che lo dice. Quando gli capita di incassare di più del previsto pronuncia questa frase. Mi giro ad annusare l’aria, sa di polvere e carta vecchia, ingiallita dal sole.
«Ehi, sorridi una volta, Nannarè!», esclama guardandomi negli occhi. Poi mi passa una bustina: «Ecco, per la benzina».
È la prima volta che ricevo un compenso in denaro che non sia la paghetta. Sorpresa, gli volto le spalle con uno scatto e lo ringrazio balbettando. Vicina all’uscita, inizio a correre e i vetri mi salutano rimbalzando.
Il cuore in gola e gli occhi improvvisamente gonfi, non riesco a trattenere le lacrime che premono contro le ciglia. Mi sembra impossibile che l’uomo a cui ho danneggiato il negozio mi abbia dato un compenso. Forse sto davvero facendo qualcosa di buono, finalmente.

I giorni passano velocemente e sono tante le consegne che porto a termine. L’estate sta finendo.
Alcuni clienti li ho visti una volta e basta, non mi ricordo neanche più i loro volti. Altri invece li ho incontrati più spesso; mi presentavo al loro portone anche tre volte alla settimana. Mi veniva quasi da chiedermi se i libri li collezionassero e basta, senza neanche leggerli. Uno di loro si è persino presentato alla fine, si chiama Alessandro.
«Ma chiamami Alex. E tu invece come ti chiami?».
«Sono Anna».

Artwork: Paolo Campana

«È un piacere conoscerti! Volevo ringraziarti per quello che stai facendo. Hai preso parte a un bel progetto, anche se impegnativo, e questo sicuramente ti donerà un buon karma. Grazie».
Non poteva sapere che Gianmarco mi teneva sotto scacco a causa del mio atto vandalico, però non riuscivo comunque a capire il suo discorso dai termini mistici. Rimasi a guardarlo perplessa, tanto gli occhiali da sole coprivano perfettamente la mia espressione ebete.
«Senti, so che stai facendo molto, ma dovrei dare questo libro a Gianmarco e purtroppo non posso muovermi di persona, come sai. Potresti consegnarglielo tu? Per favore…».
L’idea di diventare un vero e proprio postino gratis mi faceva ribrezzo, ma Alex era convinto che io stessi facendo quel lavoro di mia iniziativa, dunque non potevo tirarmi indietro. «Certo, nessun problema».

Ero infuriata. Entrai in libreria sbattendo quella stupida porta distrutta, che tremò rimbombando, come se avesse paura di vedere nuovamente la mia ira abbattersi su di lei. Gianmarco invece non era al solito posto a contare, lo chiamai diverse volte, ma sembrava fosse andato via.
Gettai lo zaino a terra. Si schiantò, esplodendo con un tonfo in mille ricevute di carta, che si sparpagliarono in giro. Iniziai a raccoglierle consapevole dell’inutilità del mio gesto ma, mentre le mettevo insieme, alcune avevano la forma e i colori delle banconote. Non mi sbagliavo, erano soldi. Tanti, tanti soldi.
Erano usciti dal libro che mi aveva consegnato Alex.

«Che succede?», la voce di Gianmarco mi colse alle spalle, facendomi volare tra le mani le banconote.
«Oh che cavolo, Gianmà! Ma che sei scemo?» strillai senza pensarci troppo.
«Ti ho chiesto che succede. Cosa stai facendo?» incalzò.
«No, tu cosa stai facendo?! Cosa sono questi soldi? Cosa significano?».
Improvvisamente, mi tappò la bocca con una mano e con l’altra mi bloccò una spalla: «Stai zitta e seguimi». I suoi occhi erano a un soffio dal mio naso, potevo vedere chiaramente la preoccupazione correre nelle sue pupille, ma non c’era traccia di rabbia.
Decisi di seguirlo e mi prese per mano. Dietro al banco c’è una porta che conduce in un piccolo magazzino, nel quale si apre anche un cunicolo largo mezzo metro quadrato: il bagno. Lì, nel posto più nascosto e silenzioso di tutto il locale, con una lampadina attaccata al cavo della corrente, Gianmarco mi ha raccontato tutto.

La libreria era una copertura. Ma non per operazioni illecite o mafiose. Lui, grazie alla libreria, aveva radunato volontari per aiutare di nascosto persone in difficoltà, precari sfruttati e rifugiati da altri paesi. Per esempio, Alex teneva a casa sua lezioni per i figli delle famiglie povere. Per questo comprava tanti libri. E con la sua attività, poteva sostenere economicamente Gianmarco.
«Perché fate tutto questo di nascosto? Perché non un’associazione alla luce del giorno?», gli chiesi.

«Ci avevamo provato. Ma siamo stati minacciati più di una volta da bande di razzisti. Brutta gente. Il culmine l’abbiamo raggiunto pochi mesi fa. C’è stata una retata. In un campo profughi in periferia, di notte, è scoppiato un grande incendio. Da chi è riuscito a sfuggire, abbiamo saputo che un gruppo di uomini, vestiti di nero, con cappucci e maschere, ha lanciato delle molotov sulle baracche. Ha preso fuoco tutto e dal campo sono spariti alcuni uomini. Di loro sapevamo solo che lavoravano in nero, non riuscivano a mettersi in regola.  Qualcuno li ha portati via e di loro non si è saputo più nulla. La polizia non ha neanche voluto indagare».

Gianmarco stava sudando, ma non faceva caldo. Le goccioline che gli scendevano lungo il cranio calvo erano evidenziate dalla luce, vicinissima alla sua tempia.
«Pochi giorni dopo, sulla facciata della libreria qualcuno aveva disegnato una svastica, ho trovato incastrato nella porta un bigliettino: “Sei il prossimo”. È stato allora che abbiamo deciso di proteggere ancora di più quelle persone. Se avessimo continuato alla luce del sole saremmo stati bersagli facili».

Cercò di grattarsi la schiena, ma lo spazio del gabinetto è pressoché nullo. Sbatté il gomito sul muro.
«Non dovevi saperlo. Ora verrai coinvolta anche tu. Può essere pericoloso, sei solo una ragazzina».
«A me sembra assurdo che dovete nascondere una cosa del genere. La polizia magari farà finta di niente, ma noi dobbiamo dargli una lezione. Li dobbiamo fare a pezzi questi delinquenti!». Agitando le braccia sopra la testa, colpii la lampadina. Ora tutto veniva illuminato come in una discoteca.
«Ma cosa pensi? Che si tratta di un gioco? Vuoi dargli una lezione? Li vuoi picchiare? Beh, sappi che non funzionerà. Non è questione di vendetta, di sfogo, di rabbia repressa. Qui si parla di cambiare totalmente il sistema, si parla di rivoluzione. E la rivoluzione si fa mettendo il bene dove prima c’era il male, si fa mostrando un sorriso a chi digrigna i denti, si fa piantando fiori dove non cresce più niente. E non pensare che questo significhi farsi mangiare in testa! Perché ci vuole coraggio, perché per prima cosa dobbiamo cambiare noi stessi. Se decidi di cambiare tu allora il mondo cambia, insieme a te. Ma se rimani sempre la stessa, nel giro delle ripicche, allora il mondo girerà come sempre».
Quelle furono le ultime parole di Gianmarco, prima di uscire dal cunicolo.
«Ad ogni modo, non parliamone più. Ora basta. Hai saldato il tuo debito. Non devi far parte per forza di questa cosa. Se vuoi puoi andare via anche stasera e avremo finito con la storia delle consegne e della libreria. Questi sono i soldi per la benzina. Buonanotte».

Lungo il tragitto verso casa, pensavo a quello che avevo fatto: alla porta della libreria, al lavoro di Gianmarco, alle persone che salvava e che non aveva potuto salvare. Di fronte a una vetrina del centro, appoggiata alla Vespa, mi specchiai in un manichino rivestito di ogni fasto e ricchezza di questi tempi: queste sono le cose che consolano le persone. Finché possiamo sperperare il denaro negli oggetti ci sentiamo onnipotenti. Ma la verità è che sono sforzi inutili. La verità è che quel denaro finirà, come le nostre vite. E mentre volgiamo la testa verso il consumo continuo, verso lo spreco costante e il crescente desiderio di altro, lasciamo che si espanda una violenza inaudita, che ormai non è più nascosta. Anzi, è così evidente che neanche la percepiamo. Ci siamo abituati ad averla di fronte, ci accompagna sempre. Siamo inermi, anestetizzati, assuefatti all’idea che non c’è niente che possiamo fare.
E invece sono proprio le nostre azioni che possono cambiare qualcosa. Le vite che incontriamo, i legami che costruiamo, le anime che inconsapevolmente salviamo.
In quella vetrina, improvvisamente, ho visto un’altra me. C’era Anna che spacca tutto perché non ne può più di restare ferma e c’era Anna che posa il sasso. E inizia la rivoluzione.

È il dieci di settembre, sono le sette e mezza del mattino e la porta a vetri della libreria è tornata integra.
La apro, mi avvicino al banco e vi poso su lo zaino.
Gianmarco mi guarda e non capisce. Gli sorrido.
«Allora, dove inizio oggi con le consegne?».

La band: Il Muro del Canto 

La canzone: Controvento

Controvento è il primo singolo del quinto disco in studio, in uscita nel 2022, de Il Muro del Canto. Il brano è una rivendicazione della libertà e un’accusa al mutismo della cultura e dei media rispetto alle lotte degli ultimi.

CREDITS

Il brano
Testo: Daniele Coccia Paifelman
Musica: Daniele Coccia Paifelman, Eric Caldironi, Ludovico Lamarra, Alessandro Marinelli, Alessandro Pieravanti, Franco Pietropaoli.
Ospite alla tromba, trombone e flicorno: Davide Di Pasquale
Registrato, mixato e masterizzato da Franco Pietropaoli presso Ermes Records
Artwork: Paolo Campana
Management: Flamingo Management
Booking: Barley Arts
Ufficio Stampa e Promozione per Il Muro del Canto: Big Time – pressoff@bigtimeweb.it

Il Video
Video ideato e montato da: Daniele Coccia Paifelman
Riprese: Daniele Martinis (scena concerto Garbatella), Georgiana Acostandei (scena finale grotta)

Il Muro del Canto sono:
Daniele Coccia Paifelman (voce)
Alessandro Pieravanti (voce narrante e batteria)
Eric Caldironi (chitarra acustica)
Ludovico Lamarra (basso elettrico)
Franco Pietropaoli (chitarra elettrica)
Alessandro Marinelli (fisarmonica)

Lyrics
Io me penso che le stelle
l’hanno messe alla rinfusa
l’ha buttate Dio ner cielo
ce l’ha messe ‘n busta chiusa
quanno cascano d’estate
co’ sta specie de preghiera
chiedo la rivoluzione
pe’ distrugge ‘sta galera

Qua nun vedo più nessuno
che cammina controvento
je sta bene la condanna
j’hanno spento er sentimento

Nun se parla più de gnente
dentr’ai dischi e sui giornali
chi ha spezzato in due le penne
j’ha comprato le vocali

Ma la storia fa vergogna
se fa nera come pece
tutti vanno alla carogna
fatte er segno della croce

E s’addormono sereni
quattro giri de na chiave
pe’ fa viaggi immaginari come dentro n’astronave
e so come le scimmiette segregate in quarantena
sordi, ciechi, muti e vinti nella gabbia del sistema

I compagni cantautori
culo e camicia coi padroni
tutti ar mare coi cappelli
so l’eroi giovani e belli

Ma era tanto tempo fa
se so fatti trasportá
dalla moda de quer tempo
perché fischiettava er vento

Ma la storia è annata avanti
fra mille pagine segrete
c’ha schedati a tutti quanti
semo cascati nella rete

Ma non stamo zitti e boni
s’addormimo a malapena
se giramo e rigiramo
ce sta stretta sta catena
semo nati cor sorriso
pe’ esse fari in mezzo ar mare
chi ce vo tenè legati
finirà pe’ fasse male

Io lo sento che la gente
nun la po’ tenè pe’ sempre
che sta rabbia che se inghiotte
se farà più prepotente
e stanotte nun m’addormo
me preparerò all’ azione
e ve svejeró domani
quanno canterà er cannone.

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