RACCONTO: Davide Emanuele Iannace – Che fa, salta a bordo?

Racconto di Davide Emanuele Iannace

Questo racconto ha partecipato al concorso Scrivere è libertà (realizzato da Just Kids Magazine, Radio Scream Italia, Diario di Rorschach, Moose Software) ed è stato selezionato per l’antologia pubblicata. Il volume è acquistabile qui: Antologia Scrivere è libertà

Che fa, salta a bordo?
Davide Emanuele Iannace

Foto di Daria Nekipelova da Pexels

La stazione dei treni era calata nella nebbia fredda di novembre. Tutto intorno, il silenzio e i segni dei primi geli coprivano i binari storti dal tempo e l’erba che era cresciuta tra le pietruzze sotto il legno, le mattonelle in cemento vecchio e le panchine arrugginite. Se la stazione avesse potuto parlare, avrebbe solo detto:

Sono abbandonata”

Michelle stava lasciando penzolare le gambe tenute scoperte dal vestito su una di quelle panchine arrugginite. Gli occhi, fissi verso il cielo appena imbiancato dalla nebbia, sembravano persi in disegni che nessuno, eccetto lei, poteva vedere. Scosse appena lo sguardo per cercare al polso l’orologio piccolo, minuto come lei, che segnava le placide nove del mattino. C’era il vuoto assoluto. Chiunque in quel momento fosse passato, avrebbe pensato a una ragazza corsa via dall’ultima festa della città, nella notte appena passata. Forse sbronza, qualcuno avrebbe detto, forse scappata via dal letto di qualche amante. Questo rischio, lì, non lo correva. La stazione era un luogo solo suo. Nessun treno vi passava, oramai, da anni.

Da una piccola borsa trasse sigaretta e accendino, accendendo la prima ancora distesa, lì, in attesa. Si chiese se lei sarebbe mai arrivata. Se mai, lei, avrebbe fatto suo quel giuramento sancito da un bacio, dal sangue, dalle due parole da cui era impossibile scappare. L’aveva invitata, nel suo posto segreto, nella sua stazione senza treni. Eppure, nella nebbia, non si udiva che il suo respiro e un corvo che, come affannato, cercava riparo da un viaggio notturno, unica altra anima nella rovina. Cauta, la sigaretta tra le labbra, Michelle si rimise seduta, osservando la desolazione. Sfiorò appena dei fiori germogliati da sotto il cemento, schiacciandoli con la punta del tacco, come a voler eliminare quella bellezza non richiesta nel momento del tormento.

Per quanto ancora, chiese a sé stessa, avrebbe inseguito ombre come lei? Per quanto tempo ancora, immersa tra le luci al neon della notte, tra i liquori raffinati e i divani in pelle nera, morbidi, accoglienti, avrebbe mentito a sé stessa e avrebbe continuato a mentire agli altri? Come in un loop, accendeva e spegneva ogni notte: fumandola, illudendosi, ritrovandosi ancora una volta da sola, ad aspettare, come quella stazione aspettava un treno che non sarebbe mai arrivato. Gettò con un gesto secco la cicca finita solo a metà, osservandola rimbalzare insieme alle altre sue cicche già a terra. Si alzò, preparandosi ad avviarsi per il meritato riposo del danzatore, quando un fischio ruppe il silenzio della nebbia. Una luce, giallastra, come appesa dinanzi una locomotiva, iniziò a traversare lungo i binari, il ronzio secco dei motori a vapore di tante decadi prima che preannunciava l’arrivo in stazione del treno che non sarebbe dovuto arrivare.

Foto di Viktor Mogilat da Pexels

Incuriosita, più che spaventata da quell’apparizione, Michelle si voltò, osservando la locomotiva scorrerle dinanzi gli occhi verdi smeraldo, seguita da una serie di vagoni che componevano un convoglio passeggeri. Il treno, troppo vecchio per non essere pezzo da museo, le si parcheggiò proprio davanti, il fumo che andava perdendosi nel bianco della nebbia, sciamando a poco a poco. Le porte, che si aprirono tutte con un cigolio che segnalava una mano d’olio da passare, non lasciarono scendere nessuno. Solo una figura, un uomo dalla pelle color ebano raggrinzita dal tempo e gli occhi incurvati quasi sotto il peso del berretto da capotreno.

“Miss, che fa, salta a bordo?” l’uomo la guardò, stretto nella sua uniforme blu scuro, il fischietto appeso al collo, il berretto ora in mano, come in segno di rispetto.
“Attendo una mia amica” ebbe giusto un filo di voce nel rispondere e l’uomo alzò le spalle.
“Ci fermiamo ancora un po’, poi partiremo” la voce, inflessibile, eppure calda, fu seguita da un mezzo sorriso che si perse dietro il fumo sbuffante della ciminiera. Michelle portò gli occhi all’ingresso, poi si voltò di nuovo verso il capotreno.
Dove va questo treno?”.
“Dove vanno i treni? In un’altra stazione, ovviamente”.
“Dove, però?”.
“Le interessa davvero?” il capotreno sorrise appena, le mani in tasca. Si appoggiò con calma ad uno dei vagoni.
“Il posto, almeno, è bello?”.
“E perché, le interessa? Questo è bello?” disse, indicando le rovine della stazione ferroviaria. Michelle socchiuse appena gli occhi, come in uno sguardo di sfida.
“Si, lo è. Sarà rovinato, ma rimane bello”.
“La mentalità giusta, allora. Vuol dire che qualsiasi cosa visiteremo, la troverà ugualmente bella”.
“Ma non mi vuole dire cosa visiteremo! Che senso ha salire su un treno se nemmeno so dove va”.
“Dipende da perché vuole viaggiare” il capotreno aspirò da un grosso sigaro, apparentemente toscano, una lunga boccata di tabacco “Se è per lavoro, si che vorrei sapere dove devo finire. Se è perché oggi non ho proprio niente da fare, mi accontento del primo biglietto che passa in convento”.

Qui non passano treni da anni. Da dove siete arrivati?” deviò il discorso rapidamente Michelle, ora seriamente incuriosita.
“Non è che proprio seguiamo gli itinerari del pubblico ufficio” ridacchiò il capotreno, gli occhi resi invisibili dal sigaro. “Non tutto segue le tabelle orarie e gli orologi. Il bello delle rovine, non obbediscono al tempo”. Michelle aprì la bocca, come per voler fare un’altra domanda, ma la richiuse, rapidamente. Che senso aveva chiedere ancora. Era chiaro che quell’uomo non le avrebbe risposto, non davvero, non in una maniera che lei comprendeva. Si guardò di nuovo indietro, cercando nell’ingresso oramai rovinato della stazione una traccia di vita. Ricontrollò sul suo cellulare il messaggio che le aveva spedito. Indirizzo, posizione, era tutto corretto. Dovevano vedersi, proprio lì, eppure lei non c’era.
“Cinque minuti!” gridò al nulla il capotreno, spegnendo il sigaro e rimettendo ciò che ne rimaneva nel taschino della divisa “Cinque minuti!”.
“Scusi, ma anche se volessi salire, il biglietto? I documenti di viaggio?”.
“Non servono” replicò tranquillo, mettendo il piede sul primo scalino di una delle carrozze del convoglio, la mano appoggiata alla porta di legno e vetro.

“Lei, Miss, sta cercando un senso alla storia che forse non può e non deve trovare. Dal suo punto di vista, questo è come follia. Dal mio punto di vista, è insensato attendere nella nebbia, in una stazione sperduta, sperando un fortuito arrivo. Che le importa dove andiamo? Aveva programmi per il weekend?” sorrise, mettendo il fischietto tra le labbra, per poi scuotere l’aria con quel classico richiamo che tanti passeggeri nel mondo avevano sentito.

Foto di Alexander Zvir da Pexels

Michelle guardò l’ingresso, e poi il convoglio. La nebbia, lentamente, andava diradandosi sotto i colpi del cielo del mattino. Un brivido di freddo le sfiorò appena la pelle, ora che anche l’ultimo whisky e cola aveva esaurito ogni effetto. Lei sarebbe arrivata. Gliel’aveva promesso, e anche se era l’ultima di una lunga serie di promesse e parole, non poteva averle mentito di nuovo. Un secondo fischio sembrò smuovere perfino i vagoni, poi la locomotiva iniziò a rombare nel vuoto della stazione desolata. Michelle guardò il capotreno, che con sguardo curioso, tranquillo, la osservava dal primo scalino del vagone della prima classe. Qualcuno, dentro il treno, le sembrò star suonando una chitarra. Le piaceva quel suono, si disse. Si chiese chi fosse il musicista, le sarebbe piaciuto battere le mani al ritmo delle corde.

Quando si svegliò, il cielo era azzurro per il mezzodì. Aprì appena lo smartphone, guardò una serie di messaggi, scrollando rapida e annoiata fino a quello di Michelle. Un posto dove incontrarsi, vari remainder, un paio di chiamate perse, poi c’erano delle foto. Le guardò, scorrendole rapidamente, ma evidentemente l’alcool e qualcos’altro dovevano averle giocato brutti scherzi, perché, poteva giurare, le sembrava che nelle foto lei fosse a Siviglia, e questo era semplicemente impossibile. Fece scivolare il cellulare sul comò e tornò a sonnecchiare. Quando provò a chiamarla, quella sera, per andare alla festa degli Spada insieme, il numero era ancora spento.

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