LIVE REPORT: Aldo Sardoni. Antologia del Ritratto @ NOEMA Gallery [Roma] – 05/10/2022

Antologia di un ritratto e di un ritrattista

Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

La fotografia è un’arte che ha una sua complicazione particolare, nell’essere un misto di tecnica e puro gusto visuale allo stesso tempo, e al contempo una profonda ricerca della realtà che ci circonda. È come dipingere, con un solo click, qualcosa di profondamente a volte inamovibile dinanzi i nostri occhi. La composizione, Photoshop e tanti altri piccoli trick del mestiere possono trasformare la realtà che viene fotografata, ma il più delle volte si lavora con quello che si ha. La realtà si presta all’occhio, non si trasforma per esso.

 

Aldo Sardoni fa esattamente questo, gioca con quel mix di verità – che è naturale quando si decide di fotografare – e la finzione – il momento in cui la creatività del fotografo invade lo spazio circostante. Così, ci ritroviamo a Roma nella galleria NOEMA per la prima presentazione dei lavori di Sardoni in quella galleria di cui è anche direttore artistico e co-proprietario, insieme a Maria Cristina De Zuccato.

Il nuovo spazio espositivo, che segue quello di Milano, si annida tra i vicoli di Largo Trionfale in quartiere Prati. Non è il quartiere più rinomato per l’arte, ma questa sfida aggiuntiva del localizzarsi in un’area diversa da tutti gli altri deve essere vista come sperimentazione. L’arte non è un quartiere. La dimostrazione sta nel costruire un piccolo spazio culturale in un’area urbana per lo più residenziale e teso verso altri tipi di attività. Non solo di costruirla, ma anche di costruirla con un preciso scopo e una mission.

Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

Aldo Sardoni ha presentato, e presenterà fino al 16 novembre, la sua Antologia del Ritratto, un viaggio che si divide tra Spoon River e tra gli spazi desolati della Sardegna. Sono due antologie fotografiche in una, due viaggi che procedono per binari paralleli nella ricerca artistica di questo architetto e fotografo che abbiamo avuto modo di intervistare direttamente per Just Kids.

 

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Parliamo un attimo del suo percorso artistico, architetto in primis ma poi anche fotografo.

Si, io di mestiere faccio l’architetto e la mia formazione come tale si è riversata nella fotografia e, viceversa, sono due cose intimamente collegate. Penso entrambe abbiamo un tema comune che è la composizione, il progetto. Tutti pensano sia la luce, sia in un mestiere che nell’altro, ma è un po’ più di questo. È la parte compositiva, il perché delle cose, che mi interessa di più. Questo è il motivo che dà origine a tutti questi progetti, che in genere sono dei racconti intimi, derivanti da questa formazione fatta prima a Venezia e poi a Roma. Il barocco che salta fuori, il legame con la storia e l’antico, è quello che mi porto dietro sia nelle architetture – che sono molto diverse nella loro forma – che nelle fotografie – dove domina il nero, il mistero, che permette allo spettatore di metterci il suo dentro. È la cosa che mi interessa forse di più.

 

Oggi qui abbiamo infatti due tipi di foto: una dedicate a strutture abbandonate e una invece a persone, corpi. Iniziamo dalla prima serie. Scelta casuale di questi posti, o c’è una logica?

Casualmente, per la bellezza dei luoghi e perché nessuno li aveva trattati. Per me sono dei ritratti, proprio come per quelli delle persone, solo di architetture. Sono luoghi costruiti da persone, vissuti da persona, lavorati da persone. Vorrei che chi guarda le foto si possa immaginare chi ci ha lavorato, chi ci ha costruito la propria vita, mutui, famiglie. Sono affascinato da questi posti che non sono più niente, ma che sono stati qualcosa di importante.

 

Mentre la serie di “Spoon River” è nata come omaggio all’opera ed è un insieme di ritratti e composizioni, corretto?

Si. Intanto, Spoon River è un po’ una mia ossessione. Ne ho esposte 12 ma ci sono centinaia di foto, risultato di altre fotografie ancora. Io nel ritratto cerco l’altro che c’è in te. Non voglio ritrarti come tu vuoi essere rappresentato, ma come non t’aspetti di essere. Il complimento migliore che mi possano fare è quando mi dicono “Non mi somiglia per niente”. Per alcuni è un insulto, per me è un grande complimento. Ho fotografato la parte di te che tieni nascosta, a causa dell’educazione, dell’esperienza. E allora tu impari a vestirti da idraulico, medico, architetto. Voglio invece togliere tutto ciò e farti un ritratto a nudo. Non a caso, chiedo spesso a coloro che ritraggo di svestirsi. Chi accetta, vuol dire che ha una propensione proprio a mettersi a nudo. Il tuo corpo poi mi interessa poco. A volte capita che la foto viri verso il corpo, ma per lo più vira verso lo sguardo. Quando poi le sviluppo, finisco per decidere se qualcuna entri o meno in Spoon River.

Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

Torniamo alla mostra. Lei è anche direttore artistico e cofondatore di NOEMA. Cosa si prova questa volta ad essere il soggetto della mostra? E qual è la grande differenza tra l’essere artista e l’organizzatore?

Questo aspetto lo subisco. Si è scoperto negli anni, almeno questo è quello che dicono la titolare Maria Cristina e chi interviene, che di solito a me viene molto bene la curatela. Mi viene bene proporre una chiave di lettura, e ciò viene dalla mia formazione di architetto. Per proporre una chiave, devi conoscere molto. Più conosci, più vedi dentro una serie, delle opere e ti viene di orientare un percorso, una strada. Che non è la verità assoluta, ma una possibile interpretazione. Questo mi è successo anche con fotografi e artisti noti, come Roberto Cotroneo, che noi rappresentiamo in galleria e che con noi per la prima volta ha fatto una sua personale, e anche il suo libro Genius Loci, l’ho titolato con lui quando mi sono occupato della sua curatela.

Seppur subendo questa condizione, mi sono ritrovato a dover giudicare – perché questo è alla fine, un giudizio – altri colleghi ed autori. Più che artisti, li voglio definire autori. È così che mi ritrovo a dire chi può esserci e chi no, ma chi può esserci dipende molto dalla filosofia di NOEMA. La filosofia è quella di avere fotografi che siano stratificati. Ho chiesto di non avere americani, chi non ha alle spalle qualche millennio di storia alle spalle, e sono quasi tutti europei. Io sono molto appassionato di storia. Per vedere il futuro, devi vedere il passato: ciò che siamo stati, ciò che siamo ora. I fotografi in genere sono europei, che hanno questa storia antica che gli americani non hanno. L’Asia non la conosco bene e quindi, per esempio, non mi permetto di spingermi verso quel lato del mondo. L’est che mi attrae è quello sempre europeo, fino a Mosca, grossomodo.

Qualcuno russo lo abbiamo in galleria, anche un’autrice bielorussa bravissima, che hanno un gusto legato alla sofferenza. Dove c’è sofferenza, l’arte viene meglio. Faccio sempre questo esempio: quanti scrittori si conoscono di San Pietroburgo e quanti di Miami?

A Miami ci sono tante belle donne e ragazzi, aperitivi e spiagge, tanto sole. Sei distratto da tutto questo, ti scorre via la vita, scrivi poco. San Pietroburgo ha storia, un clima terribile, allora tu scrivi, dipingi, componi, cerchi una via di uscita dalla condizione in cui ti trovi. A Miami non vuoi uscire da nulla, non c’è escapismo. Tutto luccica, dalle strade alle spider. A me interessa la parte opaca del mondo.

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Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

Le parole dell’artista ci riportano direttamente alle opere esposte. In questo caso, non c’è manierismo né tentativo di espressione pura, ma l’idea di generare delle impressioni negli astanti e nei visitatori, la ricerca non del senso personale dell’artista, ma di una cooperazione e collaborazione tra il fotografo e chi viene in alcuni casi fotografato, ma anche da parte del visitatore.

È una ricerca collettiva, quella delle foto di Sardoni. Se iniziamo pensando alle foto degli spazi industriali dismessi della Sardegna, il tentativo dell’artista è quello di andare alla ricerca degli echi perduti delle azioni umane che un tempo avevano un sapore familiare dentro quegli spazi. Picconi e strumenti riempivano l’aria insieme ai passi e ai respiri di centinaia di lavoratori, collegati a centinaia di famiglie, inserite in centinaia di contesti. Oggi, il silenzio riecheggia tra le mura bianche e ocra delle antiche miniere sarde. Un silenzio che è udibile anche dalla foto, elemento silenzioso per eccellenza forse, che dona e rivendica con forza proprio l’assenza di rumore.

È lo spazio per eccellenza quello decadente, che si lega benissimo a una città come Roma, di cui condivide in qualche modo la tentazione verso l’annullamento. I colori caldi delle opere si riflettono sui muri della galleria e sono riflessi dalle luci sapientemente posizionate per giocare con i numerosi bianchi e gialli dei tramonti e della pietra e del marmo. Un gioco che amplifica lo spazio che è nelle foto e dà un’idea ancora più grande di questo abbandono, di questa sparizione dell’umano.

È un gioco post-apocalittico quello delle foto di Sardoni. Il gioco della fine del mondo, di ciò che resterà dopo che la mano umana avrà abbandonato gli spazi – il cui accenno è già lì, tra le miniere. Li dove un tempo l’umanità era nel pieno del suo splendore industriale, ora rimane una El Dorado dei sogni dello sviluppo e del progresso.

Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

È un po’, in questo caso, l’antitesi rispetto al progetto Spoon River, dove Aldo Sardoni ricrea con modelle e nuove composizioni l’opera classica. Scritta nel 1915 da Edgar Lee Master, Spoon River Anthology è una composizione poetica a versi liberi che prende liberamente spunto dal fiume che correva dietro la città natia del poeta, Lewistown, in Illinois.

È una antologia di poesie rurale, che in qualche modo riprende l’idea della vita di campagna, devastandola con sferzanti versi che trattano dalla morte alla vita, non sempre in quest’ordine. Le opere di Aldo Sardoni riprendendo lo stesso tema, è una sua personale reinterpretazione di una poesia che, di per sé, parte dalla finzione del luogo per narrare un’epoca e un mondo intero. Nel caso della poetica di Sardoni, ci ritroviamo nello stesso inganno. Le modelle e le processioni sono un falso, una costruzione simbolica che Sardoni fa e rifà partendo dalla sua mente e dalla sua personale interpretazione dell’opera di Lee Masters. In questo caso, siamo proprio in quel campo che lo stesso artista ha descritto: siamo dinanzi la sua interpretazione della poetica americana, ma è impossibile prescindere dalla propria rilettura della fotografia, anche allontanandosi dallo scopo principale di Sardoni stesso.

È un’opera di finta antropologia, proprio come lo era l’opera di Lee Masters. È il sogno di un mondo che forse non è mai esistito, in cui ci si va perdendo tra i dettagli di vesti tipiche sarde e chiese e colline, che non hanno una precisa locazione geografica – tenuta abilmente nascosta dall’oscurità delle opere, dai giochi di luce. Ma dal grande generale si ritorna sempre al particolare e quello che sembra una narrazione di un’epoca contadina è un gioco di corpi nudi e di sguardi che sovrastano luci appena accennate, fiaccolate nella notte.

Dalla cartella stampa dell’evento – Culturalia/Aldo Sardoni

Ci ritroviamo in un mondo che quindi da un lato è la malinconia per ciò che è stato, dall’altro per quello che sarebbe potuto essere, per un’immagine di ciò che sarebbe potuto essere, volendo essere precisi. Questo è chiaramente il tocco particolare che Aldo Sardoni riesci a dare alla sua fotografia, prendendo a piè pari l’abilità costruttiva e spaziale dell’architetto e ritirandola con abilità all’interno dello spazio bidimensionale stesso.

Composizione, ma si vuole aggiunger, anche la luce. Nonostante lo stesso Sardoni abbia detto che è più la composizione che la luce che cerca, al contempo non si può non restare abbagliati dal modo in cui la luce entra nella composizione stessa e modula e gioca e rigioca con gli spazi stessi.

È la bellezza della forma che viene bagnata dai tramonti o degli occhi che sono a modo loro lo specchio della fiaccola e dell’anima della modella, che altro non è che, a modo suo, lo specchio che noi vogliamo sia calato all’interno dell’opera.

È un modo libero di vivere l’arte e l’opera, in un rapporto diverso dal precedente. In questo caso, c’è una visione. C’è uno scopo preciso dietro le foto, un fil rouge che collega gli spazi disabitati sardi e la finzione di un mondo rurale isolano scomparso e forse mai esistito. Ma è nascosto, questo fil rouge, nei legami tra il bianco del marmo e del nero della notte. Non si perde, né è scomparso. È lì, dietro gli abili tocchi del fotografo.

È frutto di una ricerca che spinge ad un’altra ricerca. Come esploratori che inseguono le orme di altri esploratori prima di loro, si battono sentieri ora vecchi e ora improvvisamente nuovi. Non c’è un senso giusto, nelle foto presentate in Antologia del ritratto, in questo doppio mondo che va dall’americanissima Spoon River alle miniere abbandonate. Che sia la decadenza del mondo industriale o forse dell’opera umana. Che sia la vittoria del tempo o forse il sorgere della giovinezza come fiamma incredibile nella notte, tutti i significati possono essere giusti e contemporaneamente sbagliati. È il potere dell’immergersi nell’arte, del disegnare nella notte le forme che i nostri occhi vogliono vedere e che rendono così, affascinante, il perdersi tra le fotografie di Aldo Sardoni.

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