LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: MARILENA ANZINI

Intervista di Gianluca Cleri

Gurfa significa forse tantissime cose e questo disco con se ne racchiude molte… ma forse non tutte. Molte ce le metteremo noi. Accogliamo la critica sociale di un’artista importante e di carriera come Marilena Anzini, bellissime risposte le sue che seguiranno. E bellissimo questo disco, “Gurfa” appunto, lavoro di una delicatezza e un impatto di voce assai interessante, per la ricerca e il bisogno di esplorare il lato umano e spirituale del sentire. Un disco che vi consigliamo in un ascolto immersivo e decisamente lontano da schemi e pregiudizi. E l’invito a investire del tempo per la lettura di quel che sono le sue risposte alle consuete domande di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
Leonardo da Vinci definiva “sventurata” la musica perché, a differenza delle altre arti, svaniva e non lasciava segno di sé dopo l’esecuzione: si poteva ascoltare solo dal vivo dal momento che all’epoca non c’era modo di registrarla. Una “sventura”, forse, ma anche una vera e propria magia: gli esecutori e gli ascoltatori condividevano lo stesso spazio e lo stesso tempo della musica, in una connessione profonda che doveva la sua suggestione anche al fatto che era effimera, che la si poteva vivere solo in quel momento lì. Ed è quello che si prova ancora oggi ai concerti: anche se le cose sono cambiate e abbiamo la fortuna di poter riascoltare tutte le volte che vogliamo ciò che ci piace, la natura della musica rimane la stessa e l’emozione che proviamo quando assistiamo ad un concerto dal vivo di un artista che amiamo non è paragonabile a quella che proviamo ascoltando una registrazione.
Per non parlare della gioia che provano i musicisti nel suonare insieme, o della sensazione di cantare in un coro e di sentirsi avvolti dalle voci vere e vibranti, o anche del piacere che si prova nel sentire le vibrazioni della cassa armonica dello strumento che si sta suonando: sono esperienze da provare per comprendere davvero qual è la differenza tra musica suonata e musica registrata! D’altra parte so bene quanto sia costoso e difficile registrare per esempio una parte d’orchestra da mettere in un album: è certamente più semplice ed economico ricorrere ai samples se, come nella maggior parte dei casi, non ci sono risorse sufficienti; ma ricorrere ad essi anche quando non è necessario è veramente un peccato, perché in qualche modo la vera natura della musica -che non ha a che fare solo con le note- viene tarpata e il sound è diverso, almeno ad un orecchio sensibile.
Insomma, non posso sapere cosa succederà nel futuro, ma penso che il fascino della musica suonata sia destinato a rimanere e mi auguro che la musica venga realizzata sempre più spesso con musicisti in carne ed ossa e che ci sia sempre più gente ai concerti!

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
È senz’altro un bene che la possibilità di fare musica sia alla portata di un maggior numero di persone: è uno stimolo allo sviluppo della creatività e alla diffusione della musica. Non è altrettanto un bene se questa facilità di produzione musicale nutre l’illusione di poter fare buona musica senza preparazione musicale. Al centro del processo creativo ci dev’essere l’essere umano, non il computer: quest’ultimo è il mezzo che va guidato dalla sensibilità, dall’intelligenza e -non ultime- dalle competenze dell’artista, competenze che non si improvvisano ma necessitano di studio, pratica, tempo e dedizione.
Oggi c’è questa tendenza al “tutto subito”, alla fretta che porta inevitabilmente alla superficialità: c’è chi pensa che sia sufficiente vedere qualche tutorial su YouTube per diventare musicisti o addirittura produttori musicali, mentre la musica -come tutte le arti- richiede umiltà e attitudine all’apprendimento continuo ed è proprio questo il suo bello! Non si finisce mai di imparare perché c’è sempre qualcosa da scoprire e da sperimentare: in questa ottica non ci si annoia mai facendo musica, tanto che l’atto creativo diventa anche più divertente e interessante del risultato.
E questa fretta che caratterizza il nostro tempo ha a che fare anche con la preferenza generale accordata ai singoli piuttosto che a lavori più articolati: per comporre e per ascoltare un album c’è bisogno di molto più tempo e attenzione che per un singolo. Oggi si tende a sottomettere tutto alla velocità, ma così ci perdiamo la profondità e la ricchezza della complessità, e la semplicità scivola facilmente nella banalità. Che poi la vera domanda da farsi è: ma verso dove stiamo correndo così in fretta?

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
Durante la pandemia, oltre alla preoccupazione e allo sgomento, vivevo insieme a molti anche un senso di grande speranza nello scorgere diversi segnali positivi: dalla diminuzione dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua con la natura che si riprendeva i suoi spazi, alla solidarietà ed empatia tra le persone…quello stop forzato ci mostrava con estrema chiarezza le conseguenze disastrose del nostro stile di vita troppo consumistico e non a misura d’uomo, costringendoci inoltre a guardare dentro di noi e a prendere atto della nostra fragilità. Ho pensato e sperato insieme a molti che fosse per il genere umano una chance per dare il via ad un grande cambiamento a livello globale, per rivedere certi comportamenti e recuperare valori che sembravano non avere più molta importanza ma…sappiamo tutti che purtroppo non è andata proprio così. Qualcuno però ha conservato e curato quei segnali positivi e quella speranza come fossero semi preziosi e buoni, e li sta facendo fiorire in vari modi, ovviamente anche nell’arte.
Per quel che mi riguarda ho scelto nella mia musica di dare grande importanza alle voci, perché la voce è il suono più antico che c’è ed è anche quello che suscita sensazioni molto profonde. La voce è il suono che proviene direttamente dall’essere umano: le corde vocali innescano una oscillazione che poi si propaga per tutto il corpo e si può dire che la voce è la vibrazione di una persona. Se poi c’è un’altra persona che ascolta, si crea una vera e propria risonanza ed è per questo che il canto ci emoziona in modo particolare: ci tocca, nel vero senso della parola, e ci mette in relazione l’uno con l’altro in modo immediato attraverso la vibrazione, che altro non è che energia, e quindi vita!
Il canto è stato anche il primo elemento con cui si è creata musica e ancora oggi abbiamo testimonianze di antichi canti tramandati per via orale e provenienti da varie aree geografiche; ci sono anche dei canti corali che sono dei veri e propri riti sociali, di guarigione, di connessione spirituale… come le famose Circle songs, basate sull’improvvisazione e sulla ripetizione e portate a conoscenza del mondo occidentale dal grandissimo Bobby McFerrin e dalla sua Voicestra. E anche nella nostra società c’erano canti da condividersi in tutte le occasioni: canti di lavoro e di matrimonio, canti per i funerali, canti per fare festa e canti per pregare…era anche un modo per creare coesione sociale e senso di comunità. Ora purtroppo si è un po’ persa questa abitudine ed è un vero peccato; nel mio lavoro di insegnante di canto però, quel che posso dire è che sempre più gente desidera cantare e lo considero un segnale positivo, sintomo del desiderio di tornare ad un contatto più profondo con sé stessi e con gli altri. Mi viene in mente la famosa frase di Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”.

Ed è il momento di scendere dentro questo disco. Un delicatissimo ricamo di voci, sospese dentro quella sensazione infinita e mai concreta che spesso la vita prende e restituisce quando la si guarda con incanto. “Gurfa” sembra volermi regalare un viaggio nella contemplazione favolistica. Tutto scorre con lentezza… dunque come pensi che possa dialogare con una società così dedita alla liquidità e alla superficialità?
Qualcuno ha detto che in “Gurfa”, con tutte quelle voci e quegli arrangiamenti vocali un po’ particolari, sembra di sentire le Sirene…quelle di Ulisse, hanno fortunatamente specificato, non quelle degli antifurti! 😉 Insieme a me cantano infatti le Ciwicè, un ensemble corale femminile, e io confido che il canto di tutte queste voci possa sortire l’effetto di affascinare e di indurre qualcuno a fermarsi per lasciarsi in-cantare un po’. Questo canto che in-canta è un po’ quello che mi guida anche nel processo creativo: quando scrivo, mi ritrovo spesso in una sorta di bolla dove il tempo non sembra più scorrere in modo lineare, e io mi sento un tutt’uno con quello che prende forma attraverso il suono della chitarra e della voce. Improvviso cantando, cerco di restare aperta ad ogni possibilità e attendo che affiorino melodie e parole. Poi cerco di dare un ordine dove necessario, di collegare le diverse parti e di trovare quelle mancanti, di aggiungere o togliere…un po’ come nel giardinaggio: metto un seme e poi assisto al suo germogliare, portando le cure necessarie per farlo fiorire.
L’intenzione di questo album è offrire spunti, domande e diversi livelli di lettura; mi pare che chieda sì un ascolto approfondito, ma senza imporlo, piuttosto suscitando curiosità per il suo carattere un po’ intrigante dovuto anche al suo sound -di cui è artefice il produttore Giorgio Andreoli- e ai numerosi ospiti che hanno dato il loro prezioso contributo artistico -Michele Tacchi, Fiamma Cardani, Giovanni ‘Giuvazza’ Maggiore, Oskar Boldre, Giulia Monti e Michele Fiarè-.
Sono ben consapevole che “Gurfa” non dialogherà con tutti, ma penso anche che, alla lunga, questa fretta in cui siamo tutti un po’ immersi ci stanchi, e che sempre di più cresca il desiderio di concedersi delle pause di calma e di introspezione. Forse tutto questo correre è anche un po’ uno scappare da noi stessi, e una delle funzioni dell’arte è invece proprio quella di farci guardare dentro.
Per questo ho voluto che ci fosse anche un CD fisico, con una grafica curata (di Simona Miriani ed Elisabetta Andreoli) che induca a fermarsi, a non scappare per fare qualcos’altro mentre si ascolta. È infatti molto diverso ascoltare musica con in mano un oggetto che la riguarda: immagini, colori, parole…una specie di àncora in tutta questa liquidità, un’oasi di quiete in tutto questo correre…

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Chiunque faccia musica in modo serio sa quanto lavoro e quante spese ci siano nella realizzazione di un album. In Italia però rimane comunque diffuso il concetto che la musica sia un bene di consumo gratuito: è triste e sconsolante, soprattutto se ci si confronta con la cultura di altri paesi, come la Francia per esempio, dove invece viene dato molto supporto agli artisti anche dal governo.
Spotify (e similari) ha sicuramente degli aspetti positivi: per esempio una maggiore e più semplice diffusione della musica che favorisce lo scambio, il confronto e la condivisione. Ci sono però due problemi: il primo riguarda quello di cui ho parlato ampiamente in una risposta precedente e cioè il fatto che favorisce una certa fretta e superficialità negli ascolti con conseguente diseducazione alla comprensione di musica di qualità, più complessa; il secondo è che rinforza in modo inequivocabile il messaggio che la musica debba essere gratuita e cioè, in altre parole, che non abbia valore, che sia superflua. E la beffa è che i CEO delle società che gestiscono lo streaming musicale guadagnano milioni e milioni di dollari, mentre agli artisti vengono riconosciute delle royalties talmente minime da rasentare il ridicolo. E la beffa ancora più grande è che gli artisti -soprattutto quelli non conosciuti al grande pubblico- sono nelle condizioni di non poter fare a meno di caricare la propria musica su queste piattaforme: se non sei su Spotify, non esisti proprio! Temo che sia un tema ricorrente e malato della nostra economia in generale: anche quando compriamo un chilo di zucchero, la maggior parte del nostro denaro va al proprietario terriero, a chi confeziona lo zucchero e a chi lo commercializza, mentre al contadino arrivano le briciole…è un divario ingiusto.
Non so che dire, se non augurarmi che si lavori finalmente ad una regolamentazione internazionale più rispettosa degli artisti (anche dei contadini, visto che ci siamo!) e che sempre più persone si tolgano le cuffiette e riscoprano la bellezza dei concerti live, e che ogni tanto, addirittura, si comprino persino qualche CD! (…sono un’inguaribile sognatrice, lo so!)

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Anche con i social è un po’ come con Spotify: è diventato difficile farne a meno. Personalmente non sono solita condividere la mia vita privata: semplicemente non mi viene in mente di fare un post se sono impegnata a far qualcosa -anche perché sono un po’ imbranata con il telefono…-, ma a volte mi fa piacere condividere cose che penso facciano bene e suscitino interesse, tipo video musicali o riflessioni di vario genere. Trovo poi i social insostituibili per pubblicizzare attività come concerti o eventi e per scambiare informazioni con colleghi e amici.
Li considero invece inadeguati per coltivare le relazioni umane e per gli scambi di vedute su argomenti importanti e complessi: personalmente ho bisogno della presenza reale dell’interlocutore e della sua voce, perché la qualità della comunicazione è molto più povera quando la parola è scritta invece che parlata, soprattutto se non ci si conosce bene.
E per ciò che riguarda la grande importanza che la nostra società dà all’apparire, temo che sia anch’essa frutto della frenesia e della superficialità ricorrente: c’è proprio bisogno di fermarsi e di guardarsi dentro invece che in superficie, di “essere” invece che di “apparire”, altrimenti si diventa facili prede delle mode e delle tendenze del momento con conseguenze che possono essere anche molto gravi. È ormai risaputo quanto possano essere pericolosi i social media: credo ci sia estremo bisogno anche in questo campo di una attenta regolamentazione che protegga i giovani e i giovanissimi, che vigili sulla privacy di tutti e sulla terribile piaga delle fake news, la cui diffusione viene spesso usata senza scrupoli in modo volontariamente manipolativo e socialmente pericoloso.
Insomma, rimango dell’idea che non ci sia nulla di male nell’uso consapevole e maturo dei social media, ma la vita reale è molto più ampia, complessa e interessante: il vero ambito “social”, per me, rimane sempre l’incontro tra persone in carne ed ossa!

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Marilena Anzini, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Dopo l’ascolto di così tante voci, sceglierei qualcosa di strumentale…per esempio una bella suite per violoncello solo di Bach suonata da Yo-Yo Ma o una “Children’s song” di Chick Corea. Oppure – perché no? – un po’ di silenzio, che la musica è fatta anche di quello…

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