IL TRIP: Una luce chiara – Gnut, Nun te ne fa’ [14/10/2022]

Racconto a cura di Valentina Calissano

Illustrazione a cura di Sara Camera

Il Trip

L’ispirazione

Se dovessi narrare come è nato questo racconto ne verrebbe fuori un vero e proprio TRIP! Ma ho già una storia per voi oggi e quindi rimanderò il processo della sua stesura ad un’altra prossima puntata.
Ma non temete, la prima ispirazione scaturisce sempre dalla musica. E questa volta raddoppia l’esperienza del viaggio.

Insieme a Sara Camera ho ascoltato il nuovo lavoro di Gnut dal titolo Nun te ne fa’. Senza dirci nulla, abbiamo lavorato a due produzioni artistiche differenti. Lei disegnava, io scrivevo. Poi le abbiamo unite e il risultato è questo trip. Nasce quindi una nuova collaborazione, un nuovo modo di viaggiare: insieme sul treno della musica.

Questo nuovo disco di Gnut è poesia ricca di ispirazione, un lavoro che l’ha impegnato per tantissimi anni, dal 2014 a ottobre 2022.

Ma lasciatevi trasportare nell’avventura dalla musica, alzate il volume e immergetevi nella curiosa giornata del nostro protagonista: un ragazzo sulla trentina in balìa del destino.

Una luce chiara

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Illustrazione realizzata con grafite a cura di Sara Camera

Solo chi si alza presto e riesce comunque a fare tardi può capire Giorgio.
Giorgio, trent’anni nascosti dalle labbra secche, ricoperte di barba scompigliata, tra le quali sporge naturalmente inclinata una sigaretta fatta sù poco fa. Gli scurirà la bocca quello sporco tabacco e rivestirà di puzzo la camicia celeste un po’ sgualcita ma fresca del nuovo ammorbidente alla lavanda e patchouli.

Ma cosa ci si può fare?

Lui ci ha provato, a smettere di fumare. Però, cosa vuoi, non è mica facile. Ci riesci per qualche giorno, per un fine settimana per esempio. Già il lunedì vedi i colleghi a lavoro che fumano durante la pausa. E sotto al tuo palazzo, appena fuori dal cancelletto, c’è quel signore con la felpa grigia che aspetta il tram e nell’attesa una sigaretta se l’accende.
Oppure succede come stamattina, che c’è traffico e Giorgio è fermo da venti minuti a meno di un chilometro dall’incrocio, nella sua vecchia Ypsilon. Le macchine, tante scatolette di sardine accatastate su un ripiano del supermercato, si muovono di un metro al minuto, poi arrivano al semaforo. Rosso. Passano altri cinque minuti ferme lì sotto, immobili.

Giorgio è nervoso, passa in rassegna ogni angolo della macchina in cerca di qualcosa. Poi si accorge che quel qualcosa è nello sportello del passeggero, in una bustina chiusa con l’elastico e la zip. C’era tutto.
Era destino evidentemente.

Lui ci ha provato, ma alla fine fuma la sigaretta della sconfitta. Non è riuscito a resistere.

Come non è riuscito ad uscire di casa in orario.
Eppure aveva messo dieci sveglie di fila al massimo volume, il telefono lontano sul divano per costringersi ad alzarsi e staccare la suoneria. Si, ha funzionato.
E allora cosa è successo?

Sarà stato il caffè che non usciva dalla moka? Sarà stata la camicia ancora umida, così tanto da doverla asciugare con il phon? Forse ha fatto tardi perché non trovava le chiavi della macchina, il portafoglio e gli occhiali. In quest’ordine.
Sarà colpa del gatto, che è scappato sul pianerottolo e si è lasciato agguantare solo quando ormai erano arrivati nell’atrio.
Giorgio non capisce perché capitano sempre tutte a lui. Una risposta non c’è, ne è convinto. Tanto se dà la colpa al destino quello non si offende neanche, non ci pensa a darsi da fare per lui, al posto suo.

Proprio ora che la sigaretta si è spenta nei dubbi, il semaforo diventa verde e per un qualche raro miracolo anche la sua Ypsilon riesce a superare l’incrocio. Ma è uno scherzo, perché si ferma di nuovo subito dopo.

Altro giro, altra corsa. Ma lui è sempre fermo ad aspettare.

Per ingannare il tempo si guarda intorno.
Sotto i palazzi altissimi ricoperti di graffiti colorati il marciapiede fatica a contenere tutta la gente che lo calpesta insensibile. Oltre i tombini, sul ciglio della strada, le bici sfrecciano contromano e non rispettano quasi mai gli stop o le vecchiette sulle strisce. Nei pochi spazi ignorati dalle persone emergono vetrine impolverate e ancora spente: c’è una panetteria che espone del vecchio pane raffermo come campionatura, un bar così pieno che il rumore delle tazzine sul bancone e il ronzio del macinacaffè rimbombano sul vetro sottile sopra ai tavolini compressi ed escono dalle finestre aperte da sopra.
Un odore di caffeina e di cornetti vagamente bruciacchiati raggiunge la libidine di Giorgio. Poi il traffico si sposta di un passo e compare un nuovo negozio.

 

Una ragazza con il cappotto lungo e i capelli sciolti sta alzando a fatica la saracinesca e così si inizia a intravedere qualcosa sotto al sole che già picchia. C’è un cesto di vimini scolorito dalla luce e dal riverbero, è pieno di morbidi colori attorcigliati in un filo su se stessi. Sono gomitoli di lana e di cotone, di tessuti sintetici vividissimi. Alcuni sono tondi, altri tubolari e altri ancora schiacciati e pallidi.
Dietro di loro sta una enorme matassa di juta, marrone come il tabacco che è prima scomparso nella cartina semitrasparente e che poi Giorgio ha bruciato in pochi minuti. In mezzo al cordino spinoso sono infilati degli uncinetti e dei ferri. Che sono di legno, ma si chiamano ferri lo stesso.

E lui lo sa. Perché…

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«…è pieno di morbidi colori attorcigliati in un filo su se stessi». Foto di Valentina Calissano

 

All’improvviso si ricorda perché.

Una volta era entrato in un posto così. Stava cercando un bottone per la camicia. Ma naturalmente non ce l’avevano come lo voleva lui. Però c’era una ragazza.

Era così minuta che lo sciarpone che teneva tra le mani la ricopriva dalle spalle al bacino come fosse una coperta. Poco dopo Giorgio avrebbe compreso che se l’era davvero avvolta come una copertina intorno al corpo, per non farle toccare terra. Era un regalo per un’amica.

Ad ogni modo sarebbe stato impossibile trovare bottoni uguali a quelli della camicia. Ma Chiara, la ragazza minuta con i capelli ramati raccolti in un gomitolo crespo e armonico, poteva cambiare tutti i bottoni della camicia in poco tempo e a un prezzo ragionevole.
Tanto in merceria non c’era nessuno quella mattina.

E così, mentre aspettava, Giorgio si era fissato a guardarle le mani. Portava tanti anellini di bronzo, sottili come le agili dita che infilavano l’ago nella stoffa. Un indice era coperto da un cappuccetto color ottone e su un polso portava un pompon ricoperto di spilli come fosse un orologio.
Dalle mani finì per scrutarle il collo, ben nascosto in un maglioncino aderente verde abete, poi il mento ossuto e dritto, infine i lineamenti del viso. Aveva le labbra di un rosa senza inganni e il naso a forma di fragola era decorato da un piercing tondo. Gli occhi stavano bassi sul lavoro e le ciglia parevano allungarsi per sfiorare gli zigomi morbidi, coperti a sprazzi da ciocchette disordinate e ricciolute.

Fu a quel punto che il ginocchio di Giorgio incontrò il bancone di pino, producendo un suono basso e sordo. Capì che doveva rivolgersi altrove e prese a indagare le pareti ricoperte di scatole colorate e matassine. Di tutto ciò che vide solo una cosa arrivò alla sua bocca e poi da lì alle orecchie di Chiara.

Iscriviti al corso di uncinetto e maglia!

Quando uscì dalla merceria non solo aveva tra le mani la camicia pronta e stirata, ma anche un appuntamento. Con Chiara. In merceria. Anche se non ci sarebbero stati solo loro due.

E invece si.
Alla prima lezione del corso Chiara e Giorgio erano soli. E anche alla seconda e alle successive.
Lui non ci aveva mai sperato. Lei forse era delusa. Ma questo Giorgio non lo poteva immaginare.
Intanto Chiara gli stava insegnando tutto con il sorriso sulle labbra. Gli aveva mostrato subito il punto catenella; era passato un mese per riuscire a vedere il primo risultato, ma alla fine ce l’avevano fatta! Poi fare il cerchio magico fu uno scherzo. Con punto bassissimo, basso e alto fu un po’ più dura, ma Giorgio imparava. Era un ragazzo che aveva capito qualcosa del lavoro all’uncinetto e gli piaceva. Anche se gli amici lo schernivano lui tornava a lezione.

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«…portava un pompon ricoperto di spilli come fosse un orologio». Foto di Valentina Calissano

Si divertiva a passare il cotone e la lana da un punto all’altro, ad aggrappare i fili con l’uncino e con i ferri e torcerli come voleva, a trasformarli in tessuto. Era rilassante e dava un risultato concreto.
Aveva smesso di fumare.
Alla fine dell’inverno stringeva tra le mani un pacchetto. E quando la ragazza lo aprì si srotolò una lunga sciarpa verde abete e bianca come la neve, con alcuni fili ramati: i colori migliori per accompagnare l’iride azzurro come il mare che spumeggiava negli occhi sottili e sognanti di Chiara.
Anche lei aveva una sorpresa. Da una carta argentea e sottile ne uscì un cappellino blu di morbidissima lana, tutto a trecce. Indossarono i doni prima di avvolgersi un tenero abbraccio di fronte alla microscopica merceria.

All’improvviso si era ricordato di tutto questo. E anche il resto.
Si ricordava quella inaspettata storia d’amore che l’aveva reso invincibile fino al cadere delle foglie.
Fu in un giorno di foschia che trovò il negozietto chiuso.
La saracinesca era abbassata. La polvere sporcava il marciapiede e i vasi di coccio pieni di teneri garofanini violacei.
Tornò ancora, sempre con più insistenza. La saracinesca era sempre abbassata e presto l’insistenza si ruppe come un elastico forzato fino al limite. Pian piano si sciolsero tutti i bei ricordi di un amore perfetto ma ormai solo sognato.

Il traffico tornò a scorrere. Era tardi e l’ufficio aveva chiamato già diverse volte.
Si, fino a qualche momento prima Giorgio era fermo, come sempre, ad aspettare. Un secondo dopo non c’era più.

Lo sportello della vecchia Ypsilon era spalancato sulla strada. Le quattro frecce non potevano placare l’ira di chi doveva sbrigarsi e andare a lavorare.
Giorgio sparì. Sotto un cappellino di lana intrecciato a mano, blu come la notte quando si alza sul pelo dell’acqua in mezzo al mare.

È vero, Giorgio aveva sempre aspettato. Ma ora non poteva più lasciar fare al destino.
Doveva inseguire una sciarpa verde e bianca con i fili scintillanti di rame illuminati da una luce chiara.

CREDITS

NUN TE NE FA’ – GNUT

gnut nun te ne fa

Tracklist

I’
Duje Vicchiarielli
Nun te ne fa
Colpa Mia
Ammore Quanno è Ammore
Chella notte
E Pparole
Come Se
Anche Per Te
Nuvola

Testi di Gnut e Piers Faccini
Voci di Gnut e Alessio Sollo, Fausta Vetere in Colpa Mia
Prodotto da Piers Faccini
Distribuito da Beating Drum

BIO

Cantautore napoletano che da anni calca le scene musicali seguendo il suo cammino, unico e personale. Nun te ne fa’ è il titolo del nuovo e quarto lavoro in studio. Il titolo in napoletano significa non dare troppo peso ai problemi. Un modo di dire che rappresenta anche una filosofia di vita che contraddistingue tutto il sud Italia e in particolare Napoli.

Nun te ne fa’ è il risultato di un lavoro di scrittura che ha preso il via nel 2014, grazie all’amicizia e ai forti legami artistici stretti con il poeta partenopeo Alessio Sollo e il singer songwriter inglese Piers Faccini. Quest’ultimo, già produttore del secondo album di GNUT “Il rumore della luce”, non solo é produttore e arrangiatore di questo disco ma accoglie GNUT nella sua etichetta Beating Drum dal 2018, con l’uscita del vinile in edizione limitata dell’EP Hear My Voice.

Scrivere per sopravvivere, vivere per scrivere. 

Un bisogno che è diventato ancora più urgente durante gli ultimi anni di isolamento. Nella atmosfera surreale, a tratti da fine del mondo, creare canzoni come cura contro i mali di quest’epoca è diventato essenziale. Mai come in questo momento, nun te ne fa’, ovvero don’t worry riassume la meravigliosa filosofia del carpe diem napoletano.

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Il cantautore Gnut. Foto di Alessandra Finelli

 

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