LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: CAROVANA TABÙ

Intervista di Gianluca Clerici

Quando il Jazz prende derive di soul, quando alla parola fusion quasi possiamo appiccicare ogni tipo di sensazione che parli di contaminazione e di “altro”. Che poi in realtà tutto resta ben ancorato nel suono compatto di questo collettivo di 8 giovani musicisti che si portano dietro il moniker dei Carovana Tabù: un disco come “Miles to go”, che gioca con il suono e la forma del celebre Miles Davis, con i suoi dipinti (deriva sua molto meno famosa), lavoro che riprende delle celebri scritture o ne fa di nuove sempre e comunque avendo lui come luce portante. E la tromba di Fabrizio Bosso, stabilmente conduce, colora, determina ed è protagonista… ovviamente. Naturalmente non potevamo esimerci da regalare a loro le nostro consuete domande sociali…

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre- costituiti?
Nel mondo musicale attuale il computer e la sintesi sonora sono elementi imprescindibili in pre, post e produzione stessa. Persino in live alle volte. Il punto focale, come in tanti altri aspetti di vita, è l’equilibrio. Incentrare sul piano digitale la composizione, l’arrangiamento e la pratica musicale delle proprie produzioni, non è di certo errato a prescindere, ma non fa parte del nostro progetto. Quel che interessa a noi è la materia sonora acustica. Con “Miles To Go” abbiamo poi deciso di affiancare sintesi elettronica che ci piace, ai suoni dei nostri strumenti, ricercando quell’equilibrio di cui sopra. Ed è bello ed interessante così! Oggi il pubblico è abituato ad ascoltare artifici sonori, e non ci sarebbe nulla di male in sé, in nome di un’evoluzione. Il discorso semmai è da incentrare sulla capacità del pubblico di distinguere ciò che di reale c’è suonato dai numeri di un computer e ciò che di finto i numeri di un computer fanno sembrare reale. E per un dibattito sull’educazione musicale si potrebbe creare una letteratura…

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
Siamo d’accordo sulla dannosità che un meccanismo del genere possa creare nel mondo musicale. Il fatto che chiunque possa fare un disco ha inevitabilmente portato ad una scarsa qualità musicale e ad un declassamento del nostro mestiere. La maggiore diffusione è assolutamente un bene per la comunicazione che ne deriva, ma è la sostanza diffusa che deve fare la differenza. Sia ben chiaro, qui non stiamo parlando di capacità tecniche, ma di capacità artistiche. Non serve essere bravi sullo strumento per produrre un disco, la storia della musica è piena di personalità di dubbia capacità tecnica ma di grosso carisma comunicativo. Bisogna però essere credibili, sostanziali e musicalmente innovativi. E non si può nascondere che poca sostanza e innovazione arrivino al pubblico odierno. Il commercio musicale ha omologato il pubblico e la materia prima. Sostanza c’è, ma è necessario scavare e non tutti ne hanno, giustamente, l’attitudine.

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
La storia è piena di corsi e ricorsi. Tutto prima o poi torna per poi evolversi e ritornare. Pensiamo al ritorno del vinile, ad esempio. In un tempo di digital stores, gli artisti, anche più famosi, stampano i vinili. L’arte è sempre attenta all’attualità del suo tempo e la nostra attualità storica ci impone di pensare alla pandemia e dunque all’isolamento in tutte le sue sfaccettature, le sue polemiche e i suoi compromessi, finanche alle sue positività. D’altronde “Miles To Go” è nato proprio durante il lockdown, che ci ha uniti ancora di più data la mancanza che sentivamo del nostro mondo e della nostra attività.

E parliamo di questo disco: “Miles to go” sembra una sfida culturale alle abitudini di ascolti di oggi, sempre più digitali, sempre meno caratteristiche e personali. Siamo di fronte ad una omologazione del tutto e del subito. Dunque secondo voi un disco come questo dove e come trova un punto di contatto con il pubblico moderno?
Il punto di contatto risiede, perché no, proprio nell’unione fra elettronica e acustica di cui parlavamo prima. Non siamo di certo i primi ad adoperare il digitale come uno strumento da apporre agli altri strumenti canonici. Inoltre il pubblico va educato all’ascolto. Noi nel nostro piccolo abbiamo voluto dare uno spunto in questo. Illuminare un personaggio musicale storico come Miles Davis, anche solo per un album, potrebbe dare dei risultati nel pubblico che ascolta, soprattutto se profano. È d’altronde questo uno dei sensi dell’omaggio musicale: restituire un’immagine attuale ad un’ espressione artistica del passato.

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Lo si spiega comunque con la mancanza di educazione musicale ed artistica del pubblico. Nessuno pagherebbe più di 10 euro al mese per ascoltare musica. L’omologazione al mercato ha però portato gli artisti a doversi adeguare a queste regole. Non dispiace di poter far ascoltare la propria musica in tutto il mondo ad un prezzo accessibile da tutti! La resa per gli artisti è però misera. Il compenso dell’ascolto digitale dovrebbe essere modulato in meglio, ovviamente, ma crediamo dipenda dalle politiche economiche di cui poco ci intendiamo. Ci salvano i live, che rendono di certo l’arte più partecipativa e redditizia.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Il discorso è sempre e comunque assimilabile alla credibilità. I followers necessitano di credere in qualcosa e necessitano che il primo a crederci sia tu stesso. I social sono un ottimo canale di comunicazione. Bisognerebbe distinguerli però dalla realtà ed è sempre più difficile.

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto dei Carovana Tabù, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
I Carovana Tabù, ovviamente! A parte gli scherzi, ci piacerebbe si salutasse il pubblico con la grande musica del passato in un ideale senso di continuità con la nostra. Non ci interessa l’artista o il genere, importante che sia, come già ripetuto…credibile!

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