LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: LUCA BOCCHETTI

Intervista di Gianluca Clerici

Decisamente blues questo disco… ma non tanto di quel blues tout court quanto invece di una intenzione, di un modo di fare e di pensare al suono, ai suoi bisogni spirituale e sociali. “Vai mo’?” sembra davvero un’opera rapita al caso della propria giornata, al chiuso di una stanza e nella semplicità dei suoni. Luca Bocchetti in questa semplicità racchiude non solo il suo mestiere e il suo gusto da cantautore, ma anche un simbolo che dalle restrizioni della pandemia vuol significare anche rinascita e individualità. Insomma c’è tantissimo da leggere dentro questo nuovo disco di Luca Bocchetti e noi come sempre indaghiamo da vicino con le consuete domande di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
Il discorso sui mezzi è qualcosa che trovo poco determinante. Anche la musica suonata, in molti casi, non è che un copia-incolla di modelli preconfezionati. Suonare o affidarsi alla riproduzione meccanico-digitale può portare ai medesimi, prevedibili risultati, se dietro non c’è una linea compositiva e di pensiero. La stessa famosa “forma canzone” è un format. La musica che amo e che trovo importante ha qualcosa da dire e impiega gli strumenti disponibili per dirlo. Nel mio caso specifico, non so fare a meno della chitarra, per me parte tutto da lì, ma chiaramente non è così per tutti. Non so immaginare come sostituire l’emozione prodotta da un musicista che interagisce fisicamente con il proprio strumento, ma un brano interamente realizzato davanti a uno schermo mi sta benissimo, se chi lo ha composto ritiene che quello sia il modo appropriato per mandare il proprio messaggio. Il fine ultimo è arrivare a qualcosa di bello e di vero; comunque evolvano le cose, spero che ogni musicista tenda sempre a questo obiettivo.

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
Sappiamo che il disco è un concetto commercialmente obsoleto. Il digitale è esploso anche perché comporta due piaghe seducenti: la facilità di cui parli e l’immediatezza. La nostra soglia di attenzione è ormai bassissima, tutto quello che comporta tempi relativamente larghi – che sono il principio fondamentale dell’intelletto – suscita l’interesse di pochi. È facile immaginare la deriva grottesca che menzioni (mi viene in mente quel film meravigliosamente trash con Stallone, “Demolition Man”, dove la radio del futuro trasmetteva solo jingle pubblicitari), ma il fatto che chiunque possa produrre brevi contenuti con facilità non ha molto a che fare con la musica. In questo momento la commistione è evidente e porta a un panorama sovraffollato di proposte ma, nel tempo, l’intrattenimento istantaneo si separerà sempre di più dal settore artistico-musicale, che, purtroppo, diventerà un mondo sempre più di nicchia. I vecchi colossi spariranno per lasciare posto a questi creatori di contenuti poco classificabili ma di grande successo, mentre i musicisti come li conosciamo oggi produrranno musica per il loro pubblico ristretto, esibendosi in luoghi di ritrovo sempre più contenuti. Forse arriveremo a una nuova idea di “musica da camera”.

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
Ultimamente ho notato che siamo in molti a riflettere su questo punto. La mia profezia è quella che ho appena esposto, inoltre resto dell’idea che fenomeni molto più vasti e significativi come la crisi climatica avranno un impatto determinante anche su mondi non direttamente correlati ad essa, come quello della musica. Arriveremo al punto di avere poche possibilità, in un ambiente sempre più ostile, perciò dovremo affrontare il bisogno di continuare a vivere e a fare quello che ci rende umani con pochi mezzi. Non dico che ascolteremo e faremo musica proprio come in passato, ma con un approccio simile, auspicabilmente tornando all’ingegno per far fronte a meno risorse. Mi sento un vecchio pazzo delirante quando dico certe cose, ma in realtà la mia non è una visione così apocalittica e pessimistica come potrebbe sembrare.

Un disco di blues metropolitano, di pop, di misure standard ma anche di suono libero e raccolto dentro la camera di casa propria. C’è tanto dentro… ma comunque devo pescarlo con una giusta attenzione. Secondo te ha le carte per dialogare con questa nuova società veloce, digitale e per niente blues?
Non penso sia esattamente un dialogo. “Vado mo’?”è uno straniero che parla una lingua antica e tenta di farsi capire come può, magari cercando di imparare qualche parola del nuovo mondo. Il tempo per me ha una struttura a spirale, si viaggia ciclicamente senza tornare sullo stesso punto: “Vado mo’?” sembra venire da qualche parte nel passato, ma è il mio desiderio di guardare oltre questo momento. Non mi aspetto di riuscire a comunicare con molta gente, ma devo essere onesto ed esprimermi nel mio linguaggio.

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Per chi vorrebbe trarre sostentamento dalla propria musica, onestamente, le piattaforme di streaming mi sembrano un controsenso. Praticamente tutti gli emergenti, giovani e meno giovani, che parlano di lavoro – ma prima di ogni altra cosa sembrano aspirare alla fama – caricano le loro tracce su Spotify e affini, senza badare al fatto che stanno praticamente regalando il loro “prodotto”. Credo che questo derivi semplicemente dall’ignorare come funzioni realmente il mercato (qualunque mercato, compreso quello musicale) e dallo stimolo incosciente della vanità. A me e a quelli come me, Spotify va benissimo, perché non paghiamo i nostri conti con l’attività musicale. Ho un altro lavoro che mi dà da mangiare e posso permettermi di fare uscire quello che voglio, quando voglio, come lo voglio; le piattaforme digitali sono un buon mezzo per muovere quello che suono. Gli scrittori, ad esempio, hanno imparato ad affrontare questo problema già da molto tempo: a parte pochissimi casi celeberrimi, hanno tutti altre attività, connesse o meno con la scrittura, che li fanno arrivare a fine mese. Per gli affermati, per i nomi grossi, la questione è diversa. Hanno già elaborato da molto la morte della vendita del supporto fisico: guadagnano principalmente dai live e con la monetizzazione delle riproduzioni, che con certi numeri restano un introito, per quanto relativamente ridotto rispetto al resto.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Anche questa è una questione di mercato. Se vuoi vivere di sola musica, devi seguire le sue leggi. È necessario apparire per “vendere”? Allora mi sa che ti tocca farlo. Asseconda la domanda, fai vedere dove vai, con chi ti ubriachi, quello che mangi. Quando ho dovuto scegliere se accettare o meno il supporto di un’etichetta per la pubblicazione e la promozione di “Vado mo’?”, è stato toccato più volte anche il tema dei social. Io credo di essere un esempio perfetto di “mala gestione”. Ma ho imparato a trarre il meglio dalla mia condizione, e uno dei miei vantaggi è quello di poter dire di no a quello che non mi interessa. Non devo necessariamente compiacermi delle attenzioni effimere della gente. Mi piacciono tanto quei due versi di Nessun dolore : “Gli applausi per sentirsi importante/ senza domandarsi per quale gente”. La mia musica è una cucina umile, se vuoi fermarti a tavola con me ne sarò felicissimo, altrimenti buon viaggio.

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Luca Bocchetti, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Il tema fischiato di “Un sacco bello” di Morricone.

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