INTERVISTA + PHOTO REPORT – Bud Spencer Blues Explosion @ CarroPonte [Milano] – 08/09/2018

Live report di Laura Faccenda

Photo report di Antonio Viscido

Sono tra gli affezionati di Just Kids Magazine già dal 2014, quando parteciparono al format This is not an interview. Dopo quattro anni, i Bud Spencer Blues Explosion sono tornati con un nuovo album, nuove idee e tanto entusiasmo. Abbiamo incontrato Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria) al Carroponte di Milano, in occasione del loro live sullo stesso palco de I Ministri. Il racconto di un percorso, la traduzione della ciclicità della vita, in musica.

Ciao ragazzi! Benvenuti e bentornati su Just Kids Magazine! Domanda di rito e di ripresa delle fila del discorso. Perché avete scelto la dimensione del duo? Come è nato il progetto Bud Spencer Blues Explosion e perché questo nome?

Cesare: Partiamo dalla scelta del duo. Era il lontano 2007, forse fine 2006, quando Adri che mi conosceva ormai da un po’ di anni mi propose di provare a suonare in due, chitarra e batteria, avendo poi un background in comune blues e grunge, soprattutto grunge. Siamo entrambi cresciuti negli anni ’90. In America, era l’inizio dei Black Keys che avevano pubblicato da poco l’album Magic Potion. Adriano li aveva visti live proprio là e mi disse: “Proviamo a fare una cosa così, però in italiano”. La partenza è stata questa e la dimensione del duo è nata per sperimentare. Il nome è nato per puro caso, quasi cazzeggiando. Non avevamo particolari idee. Volevamo più suonare, provarci davvero. Mentre di trovare un nome non avevamo proprio voglia. Forse il nome lungo è arrivato in contrapposizione al fatto di essere in due, tipo John Spencer Blues Explosion. Un nostro amico un giorno ci fa: “Ma chiamatevi Bud Spencer Blues Explosion!”. A catena si sono collegati una serie di rimandi, dato che John Spencer, ad esempio, riprendeva il blues in chiave “garage”, una rielaborazione, come facevamo noi. Bud Spencer, invece, con gli Spaghetti Western imitava il genere western americano in Italia. Si è unito tutto ciò in modo assolutamente involontario e da subito abbiamo iniziato a suonare tantissimo. Essendo in due, era semplicissimo spostarci. Abbiamo pensato tante volte di cambiare nome ma era come tornare indietro…e non volevamo rischiare che, dopo tutta una vita che ci provavamo, i vari allineamenti che si stavano sviluppando potessero crollare per una cazzata!

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Da Bud Spencer, mi ricollego alla sfera musicale – cinematografica. Avete una colonna sonora del cinema o una canzone che è stata inserita, appunto, dentro una colonna sonora a cui siete particolarmente affezionati?

Adriano: Così su due piedi, non so perché, mi vengono in mente tutte cose tristi! Però aspetta… una colonna sonora che mi è sempre piaciuta molto è quella del film Moon, suonata al pianoforte.

C: A me la cover di Beck che appare su Eternal sunshine of the spotless mind, Everybody’s gotta learn sometime. Quella!

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Il 28 marzo scorso, dopo una pausa di quattro anni, è uscito il vostro nuovo album, Vivi muori blues ripeti. C’è un filo che unisce queste parole e che accezione date ad ognuna di loro?

A: Dovevamo trovare un titolo e ci siamo mossi in questo modo: io cerco una parola e tu ne cerchi un’altra. Così è uscita fuori questa specie di mostriciattolo che è il titolo, appunto. In realtà l’intuizione nasce da uno slogan che avevamo letto “Eat sleep blues repeat”, credo su uno di quei adesivi che a me fanno ridere un sacco. Cambiando le parole siamo riusciti ad avvicinarci a qualcosa del genere. Non solo. Alla fine di questo album ci siamo accorti che il lavoro svolto non era poi così sovrappensiero ma che toccava corde profonde. Siamo diventati più grandi e viviamo la musica in maniera più intima, analitica. Quindi le uniche parole che ci sono sembrate adatte sono quelle relative alla ciclicità, alla vita. Si nasce, si sta al mondo per un po’ di anni, si muore…e nemmeno ti danno un premio! Ma la ciclicità riguarda anche il ritorno di certi entusiasmi riguardanti quello che facciamo…dalla composizione alla musica, in generale. È come un braciere che sta lì, sai che può accendersi però il fuoco devi mettercelo tu, lo devi alimentare e preservare da tutte le intemperie. Noi lo abbiamo fatto, lo abbiamo curato quel fuoco… Se dopo dieci anni siamo qua è perché, evidentemente, amiamo tutto questo.

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Che cosa è successo in questi quattro anni? E quanto avete percepito la mancanza del live, dimensione da sempre privilegiata dai Bud Spencer Blues Explosion.

C: Abbiamo iniziato a portare avanti anche altri progetti, da soli. E proprio in questo modo ci siamo appassionati del suono e della sua ricerca, soprattutto ultimamente. In realtà, ora, dimensione studio e dimensione live stanno un po’ sullo stesso piano. Di solito noi facevamo sempre dei dischi limitandoci a come eseguirli sul palco. Questo disco invece no. Doveva essere l’album che avremmo sempre voluto produrre. Per farti capire: “Se va bene un basso qui, mettiamocelo…Poi vediamo!”. E infatti abbiamo chiamato un bassista. Ci stiamo appassionando di registrazione e stiamo colmando quel vuoto che, in qualche aspetto, si percepiva nel nostro progetto.

Questa nuova impostazione dipende anche dalla direzione che, ad oggi, sta prendendo la musica?

C: Sicuramente. Se prima potevi stare fermo anche per tanto tempo, ora non più! Non devi per forza fare qualcosa o fare uscire roba che magari ti fa schifo…Quello mai! Prima la vedevamo più come “facciamo i dischi per fare i concerti”. Adesso le due sfere si sono allineate.

A: Sì, è così. Fino a pochi anni fa un disco era come un libro. Iniziava, finiva e conteneva dei racconti, degli episodi. Oggi la musica ha preso un’altra piega, per cui non esiste la stretta necessità di essere così netti ma c’è il dovere di produrre ad alta qualità. Tutti fanno un disco, tutti fanno qualcosa. È un confronto continuo. Con Spotify, ad esempio, ti ritrovi a dover fare i conti con band che vanno dai Led Zeppelin a tutte quelle attuali. Perciò, se prima eravamo un gruppo completamente astratto che aveva iniziato a suonare per comunicare, in nome della pura azione, senza prove, senza tanti pensieri… Probabilmente adesso facciamo più attenzione alla cura dell’insieme. Pur mantenendo le nostre caratteristiche, abbiamo intrapreso questa direzione.

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Con il vostro progetto avete suonato ovunque, sia in Italia che all’estero. Tra tutti i concerti, ce n’è uno che ha lasciato un segno particolare?

C: Non sempre la grande esperienza coincide con i grandi palchi o i festival enormi. Un segno particolare lo ha lasciato la vittoria del concorso del Primo Maggio a Roma, nel 2009. Da lì tutto poi è cambiato. Non è stato tanto l’evento in sé, ma quello che ha portato. È stata la svolta, il momento in cui dici: “Possiamo fare questo lavoro”.

A: Il fatto poi che si trattasse di un concorso, con tutte le varie fasi, dall’iscrizione al superamento di ogni step ha reso la vittoria ancora più significativa e personale.

C: Che poi anche lì…zero prove (ride)! Rientra nella concezione della performance. L’inconsapevolezza, l’incoscienza. Più gente c’è, meno prove faccio! Deve essere qualcosa di istintivo e devi avere una forte confidenza per poterti misurare con una dimensione del genere.

A: È come fare un viaggio con uno sconosciuto o con una persona che conosci molto bene. Nonostante sia un viaggio all’avventura, con la persona che conosci molto bene nemmeno devi parlare, non sussiste il bisogno di dire niente. È tutto automatico, auto medicamentoso. In più…magari non c’entra tanto con la domanda ma mi è venuto in mente questo concetto… ogni registrazione, prova o non prova, intervista, luogo visitato porta a qualcos’altro. È una concatenazione di esperienze. Una reazione a catena.

Che cosa ha significato per voi, cresciuti con la musica grunge anni ’90, suonare a Seattle? Da super appassionata e nostalgica della stessa scena, non potevo non chiedervelo…

C: Eravamo contenti. Ci sentivamo come bambini nella casa di Babbo Natale. Avevamo organizzato questo tour su My Space… della serie, “scusa, ce fai sonà?”. Mamma mia, My Space sembra ormai una roba vecchissima. Avevamo delle date a New York e delle date a Seattle. Siamo andati lì un po’ in pellegrinaggio… però poi suonarci…! La sera dopo del nostro concerto, abbiamo beccato la reunion dei Green River allo Showbox. Insomma, una figata! È difficile da descrivere… Seattle è tutta basata sulla musica.

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Ultima domanda! Nel vostro repertorio compaiono anche alcune cover riarrangiate e personalizzate. Da Voodoo child di Jimi Hendrix a Hey boy, hey girl dei The Chemical Brothers. Esiste un brano che, ad ogni ascolto, vi fa pensare: “Avrei voluto scriverlo io” o “Perché non è venuto in mente a me”?

C: Ehhhh domandona! Tantissime canzoni! Forse, più di tutte, Seven Nation Army dei The White Stripes. La ascolti e sulla chitarra ti viene da dire: “Cazzo, ma è vero!”. Spesso il genio sta nelle cose più “semplici”.

A: Il genio…o anche la rosicata!

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