Recensione di Francesca Vantaggiato
Anders Trentemøller è passato da poco in Italia a presentare il suo terzo album Lost (settembre 2013, In My Room) e si è fermato anche ai Magazzini Generali di Milano. Noi c’eravamo e possiamo sintetizzarlo così.
Astronavi. La musica di Trentemøller non sembra appartenere al presente, piuttosto sembra essere proiettata in un futuro fatto di navicelle spaziali, fasci di luce e note, flussi senza più corpi. I suoni che escono dalle casse sono veramente minimali ed essenziali, ma pure intrecciati in trame elaboratissime e preziose, al punto che il rituale accostamento con la deep-house sembra assolutamente riduttivo. Si sente che dietro ogni combinazione di suoni c’è un gran lavoro di ricerca, sperimentazione e voglia di superare la pura e semplice musica elettronica. Qualcuno l’ha chiamata microhouse, proprio per la riduzione ai minimi termini e la precisione nei dettagli sonori. Ma c’è dell’altro: ci sono i bassi pesanti dell’underground britannico; c’è il martellare della techno; c’è la delicatezza delle melodie nord europee. Mettici pure che i Magazzini Generali di Milano hanno un’ambientazione decisamente post-moderna, con pareti altissime e tubi di acciaio a vista: Trentemøller là dentro ci stava troppo bene. Astronavi = Gravity, traccia #2 dell’album.
Tamburello. Il nostro Trentemøller, diversamente da come fanno di solito i suoi colleghi dj, non si è presentato sul palco tutto solo, con le cuffie messe per storto sulla testa e lo sguardo da nerd sui piatti della consolle. Contrariamente a quello che si vede di solito, si è esibito insieme a una una vera e propria band composta da basso, due chitarre e batteria, a cui si è unita la voce della cantautrice danese Marie Fisker. Potete mai immaginare di andare a una serata di elettronica e ritrovarvi a guardare dei musicisti sul palco che agitano tamburelli e maracas? Beh, questo è quello che è successo: insieme o separatamente, si sono messi a suonare qualche strumento, lo stesso Trentemøller ha mollato più volte i dischi per shakerare il tamburello. Tutto ciò, unito alla voce della Fisker, ha dato un tocco umano alla musica, un senso di calore e di sentimento totalmente inauditi per un concerto di questo genere. Lo stesso Trentemøller si presenta come un dj fin troppo umanizzato, col suo cappello da passeggio, suona e sorride, lascia la band per avvicinarsi al pubblico e battere le mani all’unisono, visivamente sincero, divertito e felice. Tamburello = Constantinople, traccia #11 dell’album.
Cattiveria. La cosa più strana, però, non erano neanche i tamburelli. Quello che davvero ci ha sconvolto è stata la cattiveria che trasudava da quella musica. I bassi erano talmente potenti che ti scuotevano profondamente, facendoti uscire il cuore dal petto. La batteria è stato veramente un tocco da maestro, perché ti entrava fino nel cervello, martellante come colpi di mitra. Sul palco c’era gente che scuoteva maracas e nel frattempo l’onda sonora era talmente aggressiva da spostarti di qualche metro, mentre il pavimento sotto i piedi sembrava cedere e aprirsi. Cattiveria= Still on fire, traccia #3 dell’album.
Anni 80. Pur essendo proiettata in un futuro lontano di astronavi e particelle, la musica di Trentemøller ha radici piantate in un momento ben preciso della storia: gli anni Ottanta. Me lo posso immaginare adolescente, chiuso nella sua stanza ad ascoltare Giorgio Moroder, i Krafwerk e Derrick May. E la massa di over 40 presente al concerto ne è la prova.
Purtroppo. Ma come cazzo si fa a far suonare Trentemøller di giovedì sera alle 21.30? Parlo seriamente: alle 22.45 era tutto finito. Siamo uscite dai Magazzini Generali con la voglia di farci un aperitivo. Ma siccome siamo povere, ci siamo prese la solita birra dal kebabaro.
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