INTERVISTE: ALESSANDRO GRAZIAN

di Francesca Amodio

A dieci anni di distanza dal suo primo lavoro, Alessandro Grazian, classe ’77, cantautore padovano ma adottato ormai dalla metropoli milanese, torna con un disco, “L’età più forte”, in cui ci si perde meravigliosamente tra scie alla Velvet Underground, consapevole sperimentalismo del suono e echi vicini e lontani degli anni settanta. Se questo disco fosse un dipinto, magari proprio uno dei suoi, sarebbe una mattina assolata che vede un uomo sdraiarsi sull’erba ad osservare le migrazioni degli uccelli. 

Le tue canzoni vengono spesso definite come “canzoni d’autore”. Che significato ha per te questa definizione? Ti rispondo con una cosa che dice il mio amico Giancarlo Onorato: più che la canzone d’autore, esiste la canzone di contenuto. Diciamo che la canzone, come tutti i linguaggi, ha delle categorie di autori così come ha delle categorie di fruitori, che probabilmente vogliono anche distinguere la qualità dei loro ascolti musicali dando ad essi un’etichetta. Però è vero che nel momento in cui scegli di comunicare determinate cose, con determinati vestiti, determinati contenuti, in qualche modo ti distingui, quindi per me in sostanza significa questo.

Il tuo ultimo disco, “L’età più forte”, lo hai realizzato con una campagna di crowdfunding che ha avuto molto successo. C’è chi dice che queste nuove modalità di finanziamento per la musica hanno ucciso definitivamente la filiera della discografia tradizionale. Qual è il tuo parere? Io penso che una cosa sorge se ne muore un’altra, e un certo tipo di discografia è agonizzante da un po’, pertanto quello spazio vuoto è stato occupato da qualcos’altro. Purtroppo discografia un tempo significava gente che faceva grossi investimenti nella musica, cosa oggi molto rara. Fare un disco vuol dire tante cose, come affittare uno studio di registrazione, pagare le bollette, macchinari costosi, ma in realtà non è per questo che ho scelto questa modalità: ho sempre ritenuto giusto infatti che in quanto artista mi dovessi far carico io, in qualche modo, di questa prima fase di realizzazione del disco, essendo comunque un mio progetto personale. Musicraiser mi ha aiutato nella fase immediatamente successiva, quella di pubblicazione, per così dire, nonché nell’assunzione di un ufficio stampa, cosa fondamentale, per cui sono molto contento e soddisfatto: se oggi il crowdfunding riesce a fare ciò che un tempo faceva la discografia tradizionale, ovvero dischi, allora ben venga.

Diversi gruppi italiani sono stati molto legati al loro territorio, per parecchio tempo, prima di riuscire ad esportare il proprio progetto fuori dalla regione d’origine: Afterhours, Baustelle, Virginiana Miller, Epo… Tu sei padovano ma ti sei trasferito nella metropoli milanese già da un po’. Che rapporto c’è tra la musica e la provincia secondo te? Io penso che la provincia sia una grande risorsa per sviluppare delle idee e dei progetti, perché hai la possibilità di creare in modo anche un po’ immaginario e sicuramente meno viziato dalle mode del momento delle grandi città. Poi però è inevitabile che ad un certo punto del percorso venga la voglia di far conoscere le tue cose ad un pubblico più vasto possibile, nonostante sia un salto nel vuoto, a costo di scoprire che quello che fai non piace, e abbandonando soprattutto quella sicurezza che ti dà il tuo luogo d’appartenenza. Ma è un passo che prima o poi un musicista sente la necessità di dover fare. Poi magari c’è anche quello che è contento di esser diventato “l’eroe locale” della sua gente, e se questo fa bene alla sua gioia, va benissimo così.

Una collaborazione impossibile e una possibile che ti sarebbe piaciuto/ti piacerebbe fare. Beh, visto che dovendo sognare allora sogno in grande, a questo punto impossibile e possibile si equivalgono! Per quanto riguarda la prima sicuramente Fabrizio De André, che tra l’altro era uno che ha spesso collaborato con giovani; tra le possibili (per modo di dire) Ennio Morricone.

Non a caso hai scritto colonne sonore per diversi cortometraggi. Qual è l’approccio alla scrittura di un tema musicale per un film? L’approccio è quello del dialogo. Scrivere una colonna sonora vuol dire far dialogare tra loro musica e intreccio del film, tema ed immagini, o perlomeno così lavoro io; tra l’altro quando si scrive per cortometraggi si deve anche considerare il fatto che tutto avviene in meno di venti minuti, quindi in poco tempo si deve cercare di sottolineare la scena magari un po’ più didascalica, quella di tensione, o il siparietto musicale. Una cosa bella che spesso mi è capitata è quella di aver sviluppato un tema in base ad una suggestione.

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Oltre che nella musica, sei molto attivo anche in un’altra forma d’arte, quella della pittura. Riscontri affinità tra questi due mondi? Io mi definisco un musicista influenzato dalla pittura. Penso che così come nella pittura ci siano una serie di elementi che devono essere legati tra loro, come i colori, lo stesso avviene per la musica; forse ho un’attitudine “pittorica” nel modo di arrangiare, ecco, ma per il resto sono due esperienze molto diverse: la pittura è un’esperienza solitaria ma soprattutto non riproducibile, a differenza della musica, dove l’unica non riproducibilità è quella del disco. Ma comunque nel mio caso sono due mondi che faccio dialogare parecchio.

Hai suonato il basso e la chitarra nell’ultimo disco di Nada, “Occupo poco spazio”, uno dei più apprezzati del 2014, essendo lei un’artista straordinaria che trova sempre un modo sublime per reinventarsi. Com’è nato l’incontro con lei e che esperienza è stata? E’ stata un’esperienza indimenticabile per vari motivi, primo fra tutti perché lavorare con un’artista del calibro di Nada è stato davvero molto emozionante, poi perché è stato un disco registrato un po’ alla vecchia maniera, in presa diretta, eravamo una dozzina circa, diretti da Enrico Gabrielli. Io ho suonato la chitarra elettrica in tutti i pezzi, mentre al basso mi sono alternato con Rodrigo D’Erasmo e Roberto Dell’Era degli Afterhours. Sono molto soddisfatto di quel disco, che secondo me avrebbe dovuto raccogliere maggiori consensi, tra l’altro, e all’epoca mi è dispiaciuto anche che alle registrazioni non sia seguito poi un tour, ma al di là di questo resta comunque il fatto che sia uno dei dischi più belli dell’anno passato.

In “Corso San Gottardo” mi ha colpito un particolare climax, quando affermi che è sgarbata la felicità, spietata l’allegria, infame la serenità… Quella è una canzone autobiografica che parla del trasferimento nella grande città e della durezza che in qualche modo questo comporta. All’interno ci sono infatti delle citazioni che rimandano alla canzone popolare per eccellenza sull’immigrazione, Mamma mia dammi cento lire; in questo pezzo parlo di quella sensazione di smarrimento e di dubbio che a volte si ha quando si compie questo passo, di insicurezza, di non essere poi tanto certi di aver fatto la cosa giusta e di essere partiti per il posto giusto, proprio quando magari intorno a te vedi persone che invece stanno bene. Allora odi le stanze calde degli altri e odi te stesso perché sei al freddo. Volevo raccontare un po’ quel momento lì.

Qualcuno ha definito “L’età più forte” come il disco della tua maturità artistica … Spero per te che non lo sia! Semmai è il disco dell’im-maturità artistica! Scherzi a parte, essendo passati dieci anni dal mio primo disco c’è di sicuro un po’ la volontà di tirare le somme, quello sì, ma penso di essere ancora lontano da un “best of” … Diciamo che ho preferito fare il best of delle mie emozioni, e il concetto dell’età rimanda al fatto di aver raggiunto quella della consapevolezza, che magari ne precede una di maggiore consapevolezza ancora, chi lo sa. Il titolo del disco rimanda quindi un po’ a questa suggestione, e alla forza che ci ho messo nell’incanalare per bene le energie per farlo.

Hanno detto del disco: è “pinkfloydiano, baustelliano, psichedelico” (fonte: Mescalina.it). Se invece dovessi autorecensirti tu? Innanzitutto è un disco di cui sono parecchio soddisfatto. Sicuramente ci sono delle venature psichedeliche, che è una cosa che cercavo, miste allo sporco e al sogno. In “Armi”, il mio primo disco, ho raccontato un mondo immerso nelle luci al neon, per così dire, stavolta invece avevo voglia di scaldare molto, utilizzando armonie molto più ariose, di ampio respiro. Per me un disco è l’occasione sì di fare quello che ti viene, ma anche di spostarlo verso un’altra direzione una volta che l’hai ottenuto. Volevo sperimentare insomma, e credo di esserci riuscito.

alessandro grazian

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