Recensione di Gustavo Tagliaferri
L’evoluzione dei Julie’s Haircut, che pur avendo recepito dei discreti segnali grazie ad “After Dark, My Sweet” ha preso definitivamente forma una volta uscito “Our Secret Ceremony”, non si può certamente dire che abbia seguito una direzione lineare, quanto semmai che abbia preferito, lavoro dopo lavoro, distanziarsi sempre un po’ di più da quanto già tentato in precedenza senza per questo cambiare totalmente le carte in tavola, pur alla luce del fatto che quell’indie rock con i quali sono andati avanti per anni sia ormai un lontanissimo ricordo. Orbene, considerata la duplice natura, amplificata e dilatata quanto basta ed ineccepibile non solo nel suo essere fuori dai contesti vissuti nel periodo a livello di richiami “alternativi” ma non solo, di tale album ed il fatto che, seppur con in mezzo “The Wildlife Variations”, con “Ashram Equinox”, seguendo una chiave di lettura di natura spirituale, in qualche modo si fosse inaugurata una corrente maggiormente eterea e sospesa, curiosamente tale da sacrificare la parola ove non necessaria prediligendo continue variazioni strumentali mai fini a loro stesse, con un’opera come questa si può dire che a proprio modo si sia definitivamente costituita un’ipotetica trilogia, fatta di ripetuti tuffi da un lato all’altro delle dimensioni spaziotemporali. “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin” è un’altra tappa fondamentale del percorso della band di Sassuolo, perché non è una mera ed ulteriore estensione di quanto già felicemente sperimentato, ma un possibile emblema dell’esplorazione dell’ignoto, l’oscurità come fonte di ispirazione, innalzamento e, come da titolo, richiamo verso altri mondi e graduale recupero della parola, come se ognuno degli otto momenti presenti mantenesse una certa fedeltà alle singole fasi attraverso cui compiere il proprio obiettivo. La formazione di Luca Giovanardi e soci si predispone ad un lotto dalle molteplici variazioni: come il ponte levatoio di tutto ciò è situato in Zukunft, che in neanche dodici minuti si abbandona ad un teutonico vortice psych-kraut, pregno di raffinatezza ed ebbrezza racchiusa in un Fender Rhodes pizzicato dolcemente e soprattutto nel sassofono ipnotico di Laura Agnusdei, ormai a tutti gli effetti parte integrante del gruppo, ed al contempo felicemente disturbato da rumorismi situati qua e là come scie interstellari ai nostri tanto care, rampa di lancio per una chiosa distorta ed assassina, favorita dalla performance di Ulisse Tramalloni, praticamente la versione estrema di quanto è ulteriormente riscontrabile nel brano che probabilmente sintetizza in maniera ideale il lavoro, quella Gathering Light che alletta, invoglia, ipnotizza, conquista già da quell’ossessivo organo che preannuncia una jam session di evidente ispirazione jazz, a sua volta prende forma un concetto di cosmopolitismo che si distacca assai da modalità già sentite, che parte dall’anima soul, con un pizzico di blues, che pervade l’intima e sensuale pacatezza, fatta di arpeggi di chitarra in loop, di Orpheus Rising e continua con le linee irish-folk che, in un crescendo di mandolino e cornamuse, si ritrovano tracciate quando incombe il richiamo gregoriano di Cycles, soggetto anche ad un accenno di spoken word, parte integrante di quelle idee che si ritrovano anche nell’insolito mix tra mellotron alieni e sonorità da camera che accompagna il breve dialogo di Koan, un’introduzione ad una dimensione che preannuncia il ritorno alla terraferma, introdotto da strumenti metallici a percussione più volte percossi, memori dell’antica Grecia come anche dell’India. Un misticismo che trova, in forme differenti, sfogo anche nel sussurrio, che incombe quatto quatto, di The Fire Sermon, coacervo caratterizzato da tribalismi afro ed occasionali sferragliate noise, e nella conseguente sublimazione in una danza sfrenata, sotterranea, filtrata da linee vocali in preda a graduali raptus e quasi diabolica nel suo excursus, certamente identificabile in Salting Traces, mentre apparentemente fuori contesto ed in contemporanea tutt’altro che scontato è lo space rock di Deluge, destinato a sfociare in oniriche dilatazioni che fondono il jazz di cui sopra con un pizzico di prog, sconfinando per un soffio nell’ambient, e successivamente ad essere ulteriormente soffocato da ulteriori distorsioni noise. Fattori che constatano una volta per tutte come i Julie’s Haircut, nel loro essere fregi di una posizione di outsiders, ad ogni disco pubblicato vincano ogni scommessa e si confermino come una realtà da noi così tanto incomprensibilmente bistrattata, eppure tra coloro che realmente hanno ancora qualcosa da dire con i loro vent’anni e passa di attività. “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin”: un viaggio ad occhi aperti, una nuova esperienza da non tralasciare neanche per un secondo.
Julie’s Haircut – Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin
(2017, Rocket Recordings)
1. Zukunft
2. The Fire Sermon
3. Orpheus Rising
4. Deluge
5. Salting Traces
6. Cycles
7. Gathering Light
8. Koan