INTERVISTA: MAESTRO PELLEGRINI

Intervista di Sacha Tellini

Francesco Pellegrini, in arte Maestro Pellegrini, sta per concludere il giro di anteprime live volte a presentare il suo primo album da solista, Canzoni che non esistono. Ne abbiamo parlato con lui: buona lettura.

Allora Francesco, il nome di questo giro di anteprime del tour, Canzoni Che Non Esistono, nasce da una scelta assolutamente controcorrente, che è quella di non pubblicare nessun contenuto se non dopo la fine di questo primo giro di appuntamenti. Come mai?

L’idea mi è venuta parlando con Leonardo Fontanelli, membro della booking agency Locusta. Ci è sembrata un’idea originale e controcorrente, utile anche per testare la risposta e il livello di curiosità del pubblico. Come hai detto tu, Canzoni Che Non Esistono è a tutti gli effetti un giro di anteprime, durante le quali presento i miei brani e la storia relativa alla loro nascita. Ho deciso di coinvolgere mio padre in questo tour, che è un pianista jazz e con il quale per molti anni, successivamente alla separazione dei miei genitori, non ho avuto rapporti; questo rappresenta anche un’opportunità per vivere la musica in un modo più “intimo” e familiare, modo che ben si allinea al significato delle canzoni. Sono tutte canzoni autobiografiche, introspettive, che parlano di Francesco come persona ma anche di Francesco artista e musicista.

Quando comincerà quindi il vero e proprio tour di Canzoni Che Non Esistono?

Dopo questo giro di anteprime mi fermerò un po’. Nei primi giorni di gennaio uscirà il primo singolo e poi, a distanza di un mese circa, il disco completo. A marzo spero proprio di ripartire con la mia band, perché comunque i pezzi sono tutti arrangiati con vari strumenti. Nella sezione ritmica ci sono il basso, la batteria, gli archi e gli strumenti a fiato: insomma, è un disco molto ricco.

Come mai hai deciso di coinvolgere tuo padre in questo tour? Che effetto ti fa?

Le motivazioni sono fondamentalmente due: la prima è legata al fatto che, come dicevo, sono cresciuto con l’immagine di mio padre musicista. È una motivazione quindi del tutto personale: avevo il desiderio di viverlo un po’, essendo stati separati per molti anni. Allo stesso tempo, c’è anche una motivazione professionale: nel set che sto portando in giro sono previste delle parti dedicate all’improvvisazione e i brani sono difficili da interpretare, perché sono stati approfonditi anche da un punto di vista armonico. In sostanza, avevo bisogno di una persona che avesse la sua preparazione. Devo dire che, per le date che abbiamo fatto finora, questo format sta funzionando molto bene: noi siamo molto emozionati e abbiamo avuto un buon riscontro da parte del pubblico, che è stato contento di vedere padre e figlio insieme sul palco.

Foto di Fabio Martini

Facendo un passo indietro, come nasce il tuo approccio alla musica e quanto ha inciso la presenza di un padre musicista nella scelta di fare questo mestiere?

Ha pesato molto, è chiaro. Io dico sempre che fare il musicista è anche un po’ una maledizione, perché si conduce una vita totalmente diversa da quella di chi fa tante altre professioni e non solo per la precarietà, ma perché la musica ti chiede veramente tanto: ti impone di fare delle scelte, di scendere a compromessi. Io sono allievo di Paolo Carlini, primo fagotto dell’Orchestra della Toscana, e in lui ho riconosciuto proprio un uomo che ha dedicato la sua vita alla musica e al suo strumento, quasi come fosse una religione. Io invece, pur avendoci convissuto fin da bambino, iniziando dal sassofono e passando poi alla chitarra elettrica, mi chiedo a volte se ho fatto o meno la scelta giusta, perché in fondo non si è mai completamente certi che la musica sia proprio la strada che fa per noi, perché questo mestiere ti costringe a rapportarti con te stesso e a tirare fuori pensieri ed emozioni profonde con le quali ci confrontiamo sempre molto poco. A 14 anni avevo già la mia band e a 20 anni avevo già in mano il mio primo disco: mi piaceva e mi riusciva bene, quindi ho deciso di continuare su questa strada. Sono partito con i Criminal Jockers e in quel momento la musica è passata all’essere un hobby all’essere un vero e proprio lavoro, soprattutto dopo che l’agenzia Locusta ci ha proposto – a me e a Francesco Motta – come musicisti di Nada. Poi a 23 anni ho fatto la scelta folle di dedicarmi al fagotto, ed è stato amore a prima vista. È uno strumento incredibile, anche se non si vede molto nella musica leggera. C’è un motivo per questo: non è facile da amplificare, perché è uno strumento molto classico, ma alcuni artisti, come Silvestri e Morgan, lo hanno recentemente utilizzato dal vivo durante i loro concerti, quindi si sta riscattando anche nella musica leggera. Successivamente all’entrata nel gruppo Zen Circus, che mi ha portato grandi soddisfazioni a livello professionale, ho sentito l’esigenza di realizzare questo disco: io scrivo e compongo da anni, ma non ho mai sfruttato questa mia capacità. Nel momento in cui ho avuto un po’ più tempo e soprattutto in cui mi sentivo molto a contatto con me stesso, ho scritto il primo brano e mi sono reso conto che era proprio quello che avevo nella testa. Tutti abbiamo qualcosa da dire, ma a volte è complicato trovare il modo per trasmetterlo agli altri: scrivere mi ha dato proprio questo, è stato un mezzo per parlare senza filtri.

Qual è stato il punto di svolta della tua carriera artistica?

Per quanto riguarda la mia carriera, non credo che ci sarà mai un vero punto di svolta perché la speranza è quella di continuare a crescere e ad andare avanti. Sicuramente, quelli che posso considerare senza ombra di dubbio come episodi rilevanti del mio percorso, sono stati l’ingresso nei Criminal Jockers, il tour con Nada e anche quello che ho fatto con Appino, Grande Raccordo Animale, che poi ha fatto da apripista per il mio ingresso negli Zen Circus. Adesso sono a un nuovo punto di svolta, perlomeno a livello di crescita personale, che è appunto il mio disco solista.

La tua carriera vanta numerose collaborazioni – Enrico Gabrielli, Bobo Rondelli, Francesco Motta, Nada e altri – ma qual è stata, tra tutte, la collaborazione che ti ha regalato qualcosa in più rispetto alle altre?

 In realtà, tutte mi hanno dato qualcosa in modo diverso l’una dall’altra. Con Francesco Motta è nata un’amicizia fraterna, forse data dal fatto che ci siamo incontrati in un momento della nostra vita in cui entrambi volevamo fare della musica una professione. E questo ci ha permesso di crescere insieme professionalmente e di legare molto. Nada mi ha dato invece tanto a livello professionale e mi ha insegnato cose che non sapevo e che mi hanno permesso di crescere soprattutto come chitarrista. Con Bobo Rondelli ed Enrico Gabrielli, pur essendoci stata una collaborazione molto breve e per dei piccoli progetti, è nata una profonda stima: sono due artisti che ammiro molto.

Come sei entrato a far parte degli Zen Circus?

È stato per un concatenarsi di situazioni che anch’io ritengo strane. Conoscevo gli Zen Circus già da un po’ di tempo perché con i Criminal Jockers a volte aprivamo i loro concerti. Quando Andrea Appino si è trasferito a Livorno, pur avendo qualche anno più di me abbiamo iniziato a frequentarci più spesso e da lì è poi nata la richiesta di partecipare al suo album Grande Raccordo Animale: non era una semplice collaborazione, ma un vero e proprio provino, a mia totale insaputa, per il mio futuro ingresso negli Zen. E quando si è finalmente palesata questa possibilità, io non me la sono fatta scappare.

Tornando a Canzoni Che Non Esistono, come sono nati i tuoi brani?

Per un periodo ho vissuto in una casa a Livorno di proprietà di Paolo Virzì. È una casa incredibile, all’ultimo piano di un palazzo storico nel quartiere Venezia: quando entri, percepisci subito che è stata concepita da un artista. Quando andai per la prima volta a vederla non sapevo che fosse lui il proprietario: la signora che me la fece visitare mi disse che quest’ultimo viveva a Roma e non era molto incline ad affittarla. Quando poi venne fuori che era proprio Paolo Virzì, fu lui stesso a concedermela: conosceva mia mamma e quindi fu ben contento di farmici stare per un po’. In questa casa c’era un pianoforte che io suonavo spesso ed è lì che ho scritto il mio primo brano e quasi tutti quelli a seguire. Era un momento in cui si stavano susseguendo molti cambiamenti nella mia vita e forse è stato proprio questo che mi ha riportato un po’ alla volta ad avere un contatto più intimo con me stesso. È stato un processo molto lungo, che mi ha permesso di scrivere poi nove canzoni in circa un anno e mezzo di tempo. Gli Zen rappresentavano già un grosso cambiamento, ma io sentivo l’esigenza di dare spazio alla mia crescita personale e adesso siamo quasi arrivati alla fine di questa parte di percorso.

Che cosa provi nel pensare che a febbraio verrà pubblicato il tuo primo album da solista?

Si provano sensazioni contrastanti: sicuramente un po’ di paura, perché sento addosso una bella responsabilità. Non sono un emergente, quindi so che le persone si aspettano qualcosa da me e io non voglio deluderle. Allo stesso tempo, sono anche molto emozionato e contento. In questo momento sono completamente assorbito da questo progetto, ci sto lavorando tanto e suonare mi aiuta, perché mi permette di scaricare lo stress e mi fa vivere appieno le canzoni che ho scritto.

Che cosa ne pensi dell’attuale panorama della musica italiana, dal tuo punto di vista di artista assolutamente indipendente?

L’offerta è varia, spesso ci vengono presentati progetti che si somigliano un po’ tutti, e altri invece che sono molto originali. Lo stesso Francesco Motta, ad esempio, ha uno stile che differisce molto da quello che va per la maggiore in questo momento. L’industria musicale purtroppo è un po’ comandata anche dalle mode, perché sono quelle che il pubblico segue. Lo testimonia il fatto che abbiamo assistito per un periodo alla scomparsa delle chitarre, poi è stato sufficiente il pezzo di Achille Lauro a Sanremo (Rolls Roycendr) e le chitarre sono tornate nuovamente alla conquista della scena musicale. Capire quale potrebbe essere la novità o cosa potrebbe piacere al pubblico è il gioco delle produzioni; sicuramente c’è molto fermento e questo è indubbiamente positivo, però non bisogna mai dimenticare che le mode prima o poi finiscono. Come dice Niccolò Fabi, facciamo finta che chi ha successo se lo merita davvero.

Ho letto una tua dichiarazione che mi ha colpito molto: Credo che chiunque, una volta nella vita, debba scrivere almeno una canzone. Perché?

Perché abbiamo tutti qualcosa in testa che è complicato dire. E la musica può aiutare a tirare fuori quello che si ha dentro.

Per concludere, quali sono i tuoi progetti artistici futuri?

Come ti ho anticipato, in questo momento tutta la mia concentrazione è dedicata a questo disco e non posso fare altrimenti, perché ci tengo tanto. Dopo il disco, però, c’è un progetto strumentale. Composto da fagotto e pianoforte, che vorrei realizzare insieme a mio padre e che abbiamo chiamato Duo magenta: si tratta di una serie di video che abbiamo registrato in un negozio di pianoforti e che adesso sono online su YouTube. Avremo anche qualche altra novità con gli Zen Circus, rispetto alle quali però non posso dire ancora niente. Infine, un’ultima cosa che ho rimandato di qualche mese e che vorrei portare a termine è prendere il diploma, che cercherò di conseguire nel più breve tempo possibile.

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