#JUSTKIDSREADING: intervista a Talatou Clementine Pacmogda, autrice del romanzo “Basnewende”

Talatou Clementine Pacmogda è nata nel 1977 in Costa D’Avorio, ma è scresciuta in Burkina Faso. Si laurea in Linguistica all’Università di Ouagadougou e vince una borsa di studio per un dottorato alla Scuola Normale superiore di Pisa. Da febbraio 2015 è cittadina italiana, e vive a Borgo Val di Taro nella provincia di Parma con la sua famiglia. Pubblica nel 2020 per PlaceBook Publishing il romanzo autobiografico Basnewende.

a cura di Frank Lavorino

Ci presenti il tuo romanzo Basnewende?
Basnewende è un racconto autobiografico che narra la mia vita dal conseguimento della laura in Burkina Faso, della mia venuta in Italia e della mia vita da quando sono qui. All’inizio, lo scopo era raccontare la mia nuova vita come persona immigrata, raccontando come si vive da persona appartenente a due diverse culture. Volevo raccontare le mie prime gioie e difficoltà, ma anche le nuove scoperte ed amicizie. Però, ogni volta che parlo con qualcuno, mi viene chiesto il motivo del mio arrivo in Italia. Allor, ho pensato che era meglio scrivere anche del perché, quando e come sono arrivata qui. Per questo, ho cominciato il racconto partendo dagli ultimi tre anni di vita in Burkina Faso, periodo che coincide con la discussione della mia tesi di laurea prima della partenza. 

Qual è il significato del titolo della tua opera?
Basnewende è una parola di origine moore, la lingua locale più parlata in Burkina Faso. La parola è composta da “Base” (lasciare), “ne” (con) e “Wende” (Dio). Il primo significato sarebbe “lasciare nelle mani di Dio”, “lasciare con Dio”. Però è usato anche per dire “stai sereno”, “mantieni l’ottimismo”, “non ti abbattere”. Ho perso un figlio verso il settimo mese di gravidanza e mia madre gli aveva dato questo nome, un po’ come un nome di speranza, di accettazione e anche di preghiera per invitarmi a lasciare stare il passato e rimettere tutto nelle mani di Dio. In Africa i nomi propri si riferiscono sempre a qualcosa di preciso.

Quali sono i messaggi che hai voluto trasmettere attraverso la tua storia?

Per prima cosa, con questo libro, ho voluto presentarmi. Quando una persona va in un luogo nuovo, dve farsi conoscere. Siccome leggo tante cose false e accusatorie sui social, ogni volta che si parla dell’immigrato – soprattutto dell’Africa e degli africani – ho voluto far capire che, come tutti, l’immigrato è un essere umano con i suoi alti e suoi bassi. L’Africa è come un posto qualunque, con le sue difficoltà ed i suoi valori; il popolo nero è – come tutti gli altri popoli – composto da persone buone e persone cattive. L’Immigrato è esattamente piange, ride, balla, canta. Come tutti. L’ho voluto raccontare perché, ogni volta che leggo certe affermazioni sugli africani, mi dico: “ha ragione perché non può capire. Bisogna che dica qualcosa io che vengo dall’Africa”. Non rappresento tutta l’Africa: l’Africa non è un paese, ma un continente. Non posso conoscerla tutta, come un italiano non può pretendere di sapere tutto sugli usi e costumi di tutti i popoli europei. Però mi considero protagonista di questo continente, spesso visto con disprezzo e pregiudizio. Ho voluto prendere il Burkina Faso come esempio per raccontare come si può vivere in Africa, non posso nemmeno parlare di tutto il popolo  Burkinabè, perché non conosco tutto il Burkina Faso. Sento il bisogno di farmi conoscere, di presentare la mia cultura, la mia vita, il mio popolo di origine e rendermi disponibile a rispondere a qualunque domanda per dare voce a molti come me che vivono in Italia. Penso che a volte esista la paura dello sconosciuto che crea diffidenza e rifiuto. Ho voluto far vedere come il contatto di culture arricchisce. Ho imparato molto in Italia, dall’Italia e dagli italiani. È un modo di raccontare a più persone la mia nuova vita con le gioie e i dolori, le nuove amicizie e relazioni, gli aspetti positivi e negativi del vivre come straniero in un nuovo paese. Si diventa come bambini, perché si deve ricominciare a imparare tutto, anche a parlare e farsi capire, capire gli altri e relazionarsi, usare i semplice utensili domestici. Volevo far vedere com’è difficile per chi arriva da un altro paese e come c’è bisogno di una mano che aiuti gli immigrati. Questa mano passa attraverso l’accoglienza e l’accompagnamento verso l’integrazione, altrimenti uno si perde e cede alla disperazione. I primi momenti sono veramente difficili e credo che molti cedono alla delinquenza, perché spesso la novità crea un senso di impotenza e disillusione che rendono nervosi e disperati. Poi volevo far vedere come possiamo vivere tutti insieme senza discriminazione. Insieme possiamo costruire dei ponti fra le diverse culture. In realtà, non siamo così diversi come molti pensano. La differenza risiede soltanto nell’aspetto fisico, ma in fondo siamo tutti uguali. Non posso fare nulla di concreto perché non ho una carica che me lo permette, ma posso raccontarmi sperando di creare un collegamento fra i popoli. La mia è una goccia nel mare, ma sono diverse gocce, una dopo l’altra, che fanno la pioggia che poi bagna la terra.

Nel romanzo, parli diffusamente della vita cha hai condotto in Burkina Faso, dalle difficoltà legate al diritto allo studio, fino alla dura condizione in cui versano gli ospedali e in generale la sanità. Com’è la situazione del Burkina Faso in questo momento?
In Burkina Faso, dopo la miapartenza per l’Italia, si sarà fatto qualche passo avanti, perché nessun paese rimane allo stesso livello per 12 anni. Non credo che il paese sia andato indietro, però non è cambiato poi molto. Quando ero piccola, ogni famiglia iscriveva il figlio a scuola solo se potevano permetterselo, cioè se potevano pagare sia la tassa scolastica che il materiale necessario per lo studio. Ora lo Stato mette a disposizione i libri essenziali per le scuole elementari, alcune scuole primarie hanno una mensa (diciamo più una cucina) e gli alunni vanno a scuola con i piatti per poi portare il cibo a a casa all’ora di pranzo e condividerlo con i fratelli, per poi tornare a scuola nel pomeriggio. Però i problemi rimangono tanti: mancano le scuole e molti bimbi fanno diversi chilometri per andarci. Questo crea tanti abbandoni scolastici. Le classi hanno sempre numeri enormi che a volte superano i cento alunni. La povertà fa si che spesso, in una famiglia, si scelga chi mandare a scuola e chi no. Di solito sono le femmine a rimanere a casa. La  fame e le condizioni di vita difficili fanno si che molti bambini preferiscano vendere degli articoli in strada invece di andare a scuola, per poter almeno mangiare ed aiutare i genitori. Tanti sono i ragazzi che dopo la licenza media preferiscono cercare un impiego per potere pagare la scuola dei fratelli minori e permettere loro di studiare di più.  All’ospedale non è praticamente cambiato nulla, a parte il fatto che esiste ora una specie di assicurazione sanitaria per i bambini da zero a cinque anni. In Burkina Faso è come in America: se hai i soldi e ti ammali ti salvi, altrimenti è dura. Per questo, io mi chiedo se un paese dove si muore perché non si ha accesso alle cure può essere considerato una grande potenza.

Che sentimenti hai provato quando hai rievocato la tua infanzia e il tuo difficile percorso di crescita mentre stavi scrivendo il tuo romanzo?
Non sono abituata ad abbattermi, ad accusare la vita o gli altri. Rivivo certe cose con orgoglio. La vita ha voluto buttarmi subito nella sua scuola dura e cruda chiedendo di dare il massimo di me. Ho imparato presto che se volevo vivere e bene, dovevo lottare senza aspettare nulla da nessuno. Ad un certo momento è quello che ho fatto. Credo che questa vita in un certo senso dolorosa, ha fatto di me la donna che sono oggi. Ognuno nasce, secondo me, con una strada da seguire per realizzarsi. Alcune persone hanno la strada già asfaltata, altri devono trovare il modo per asfaltarla con tutta la fatica che questo comporta. La mia era piena di spine, salite, curve e buchi con a destra e a sinistra dei precipizi. Non avevo quindi tanta scelta e l’ho capito già da piccola. Devo però riconosco che, a tratti, mi sono dovuta fermare nello scrivere perché i miei occhi erano pieno di lacrime. Dovevo respirare forte o correre nelle braccia di mio marito che mi diceva di spegnere il computer. Alcuni ricordi non sono facili da tirare fuori, tornano vivi nel presente, diventano di nuovi forti e sconvolgenti. Quando uno mette sulla carta il suo vissuto, in quel momento si rende conto di com’è stata la sua vita. Io mi sono accorta di non aver mai avuto un’infanzia, ma di aver vissuto sempre da adulta. Mi sono resa conto che non ho mai ricevuto una carezza o una tenerezza. Però significa anche che ne voglio dare tanto io agli altri, perché ne conosco il valore e so che se mancano possono far soffrire tanto.

Dalla tua opera: “Io Clementina, non sono fiera di essere nera. Sono nera e basta! Non c’è da essere né fieri né tristi… Siamo tutti nati e ci siamo ritrovati neri o bianchi, o gialli, senza aver dato nessun contributo. È un caso… Abbiamo semplicemente da accettare una cosa che non possiamo cambiare. Se qualcuno si sente veramente contento o, al contrario, infelice per il colore della sua pelle, credo sia il più gran cretino della storia dell’umanità!”. Vuoi approfondire questa tua intelligente affermazione?
Non dovrei avere bisogno di scrivere una cosa del genere nel 2020, dovrebbe essere ovvio. Però i tempi che corrono dimostrano il contrario. Sia durante i miei viaggi, che quando leggo o ascolto i media, si vede che il nero da fastidio a certe persone. Il nero è quello più controllato negli aeroporti, stazioni e in città. E soprattutto, alcuni affermano la supremazia del bianco sentendosi non so chi. Io sono nera e fiera di esserlo è stato  uno slogan usato durante la negritudine e la lotta per i diritti dei neri. È un modo per dire che accetto la mia natura, ma non è una frase che uso. Che io sia nera si vede da subito, non c’è bisogno di dirlo. Quindi per me è una cosa completamente trascurabile come informazione. Sulla terra o siamo bianchi o siamo neri o siamo gialli o siamo rossi. Tutti non possono essere bianchi, come tutti non possono essere neri. La natura – o se volete Dio – ha voluto che gli uomini fossero di diversi colore e basta. Io sono nera perché papà e mamma erano neri: mica mi potevano fare bianca! È la stessa cosa che maschio o femmina, alto o basso. Sono cose naturali sulle quali non si discute. Sono condizioni imposte imposta dalla natura, a secondo di dove e da chi sei nato. Non può essere motivo di tristezza o orgoglio. Il mondo va avanti non perché noi abbiamo un colore di pelle preciso, ma perché ci impegniamo a farlo andare avanti con le nostre fatiche, le nostre azione, i nostri comportamenti. Ognuno, nero o bianco che sia, deve tenere conto di certi valori per vivere ed aiutare gli altri. Stare dietro all’aspetto esteriore per giudicare, condannare o apprezzare gli altri è da veri stupidi. 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuare a costruire ponti. Provare sempre ad essere utile. Amare senza distinzione. Riuscire a fare conoscere i miei scritti il più possibile, sperando siano di aiuto a qualcuno. Riuscire a dimostrare che la sofferenza e la povertà non sono delle condizioni irreversibili. Far prendere consapevolezza agli aoltri della fortuna che abbiamo e far vedere il valore delle piccole cose.

Contatti
https://it-it.facebook.com/pacmogda.clementine
https://www.placebookpublishing.it/
https://www.amazon.it/Basnewende-Talatou-Clementine-Pacmogda/dp/B08BDVMX8R

Titolo: Basnewende
Autore: Talatou Clementine Pacmogda
Genere: Romanzo Autobiografico
Casa Editrice: PlaceBook Publishing
Collana: Gli AEDI
Pagine: 316
Prezzo: 15,60
Codice ISBN: 979-86-548-67-315

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