Intervista di Gianluca Clerici
Davvero poco da dire per un disco rivelazione… e di questi tempi è assai raro ascoltare qualcosa che sa coniugare il gusto popolare con una stilema che non guarda in faccia a mode e a cliché. Assai raro oggi incontrare qualcosa che sfoggia personalità libera e priva di maschere… e la firma è quella di due grandi della scena nazionale e internazionale.
Parliamo di Vince Pastano e Tony Farina, parliamo dei Malacarna che con questo Ep eponimo mi hanno dimostrato che dentro le pieghe della scena indipendente ampiamente omologata (nonostante i numerosi tentativi di far finta di essere alternativa), esistono artisti e dischi che hanno ancora tanto da dire. Un seminato cavernoso, esoterico, gotico, raffinato in quel mestiere tanto americano di rovinare i bordi delle sue forme.
Acido di un rock antico e ancestrale, quasi evocativo e medievale dentro liriche che non sono ne in italiano tantomeno in inglese… sono in dialetto Lucano. Detti popolari e racconti di strada che non hanno tempo… perché per quanto sia questo il futuro e quello un passato ante-guerra, esisterà sempre la discriminazione e il pregiudizio, esisterà sempre la malacarna di turno, magari oggi in versione digitale. Ma questo disco è analogico, lontano anche dai cliché della rete e disponibile solo e soltanto in vinile. Punto e a capo gente. Esistono ancora gli artisti ed esiste ancora la musica che si rispetta e si fa rispettare. Sta a voi poi avere la capacità di riconoscerla…
Prima di tutto partiamo dalla scelta del dialetto lucano, dei detti popolari, delle antiche e nefaste tradizioni… come nasce questa idea?
In origine i brani nascono come dei semplici blues in lingua inglese, ma già intrisi di simboli ben delineati che poi compariranno in Malacarna. Si sa che la musica ha un tale ancestrale potere evocativo che quando la si crea e ci si immerge completamente, riesce a estrapolare dall’interno il nervo della propria ispirazione!
Il suono e la musica sono stati il vero slancio verso ciò che è diventato Malacarna. Quelle visioni sonore richiedevano un linguaggio più intimo, quello che si arrovella con le proprie paure, con il credo religioso, con le reminiscenze del passato, con i racconti di bambino, con la cultura popolare e che contribuisce a costruire la nostra ossatura etico-morale. Da qui l’intervento della lingua, (il dialetto lucano). I brani scritti in inglese celavano figure forti provenienti dalla mia cultura.
È stato come togliere un velo che ha rivelato: Maria Lou la Maddalena peccatrice con le sue rose dissolute, il gospel maledetto dal tono saccente di Oh Signorë ( interpretato da Raiz), lo stornello popolare di U’ milë (g)ranatë al confine col mito di Persefone e Marë cittë ispirato dal proverbio ijumë cittë nun passà che si collega al racconto della tragica vicenda di una paesana che scomparve tra le acque impetuose del fiume.
Pensando ancora alla scelta del dialetto e delle tradizioni, sembra quasi di tornare alle ricerche di Diego Carpitella. Sembra che questo disco, modificando il tutto con musica propria, voglia far rivivere un’Italia che non c’è più o che forse continua ad esserci sotto mentite spoglie. Che mi dite?
Senza dubbio questo disco mette in luce una realtà culturale che non esiste più e che si è trasformata in qualcos’altro, senza però perdere quella sua attualità, celata nella saggezza popolare, e la sua morale universale.
A differenza di Diego Carpitella questo progetto funge da ricerca sì, ma non etnomusicologica, in quanto lo studio delle musiche dei popoli mette in campo discipline come l’antropologia e la musicologia, studiando i meccanismi armonici e ritmici che costituiscono un tipo di Musica e la funzione che essa svolge in un determinato ambito culturale. La ricerca qui è totalmente diversa, si adopera allo stesso modo in cui il Rock è riuscito ad estrapolare forme embrionali dal blues per poi diffonderle, trasfigurandole. Nel nostro caso io ho composto le liriche in maniera completamente personale e romanzata, emulando addirittura un modo di fare versi più simile a quello di Bob Dylan, brevi bozzetti di jazz linguistico che a volte si rincorrono in maniera apparentemente insensata ma costituiti da racconti, aneddoti, stornelli, credenze e superstizioni che che appartengono alla mia cultura.
Quindi una vera è propria proiezione culturale che va verso l’esterno e che incontra una sperimentazione sonora futuristica, frutto di una ricerca eclettica e sperimentale da parte di Vince che esalta le sfumature del dialetto Lucano delineandone i contenuti e le sonorità.
Malacarna”Decisamente una rivelazione fuori da tantissimi canoni moderni. Si torna alle radici sotto tanti aspetti. Ma prima di tutto come nasce questo incontro tra voi due?
Venti anni fa sono stato adottato da questa bellissima regione, l’Emilia Romagna, ed ho conosciuto Tony Farina nei primi anni bolognesi. Pochi anni dopo abbiamo formato i Pulp Dogs assieme al chitarrista Antonello D’Urso; con questa band abbiamo sperimentato vari generi musicali (dal rock alla musica cubana sino a quella dialettale) e non abbiamo mai smesso di collaborare. Malacarna nasce nel 2016 ed è il risultato di venti anni di sperimentazione e sintesi lessicale/musicale.
E poi l’artista Dorothy Bhawl ha firmato la faccia del disco. Come del video di Maria Lou, immagino. E questo incontro invece? Com’è accaduto?
È stato un incontro magico fatto di intese. L’ho conosciuto qualche anno fa grazie alla sua collaborazione con Beatrice Antolini per la copertina del suo ultimo album. Sin da subito ho creduto al fatto che le sue opere potessero esprimere tanto della mia visione musicale. Quando gli ho illustrato il progetto Malacarna non ci siamo detti molte cose oltre a parlare dei testi (pregni di folk e simbolismi). Volevo che si sentisse libero di esprimere proprio come se fosse un suo progetto. Così è stato anche per i video. Non riusciamo a vedere Dorothy come entità sconnessa dalla nostra musica ed infatti è a tutti gli effetti il terzo elemento della band.
Quanto istinto e improvvisazione c’è dietro questo lavoro?
C’è la voglia di sperimentare e di mettersi a nudo, di fare tentativi che a volte possono risultare imbarazzanti anche a noi stessi. Non esiste risultato se non si raggiunge questa condizione di autocritica. Solo successivamente a questa fase i brani vanno diretti con metodo.
Un disco che si tiene lontano dai consueti canali digitali vero? E poi il vinile. Insomma, scelte assai rivoluzionarieoggi: posso chiedere perché?
Da parte nostra c’è meno romanticismo di quel che si possa pensare; negli ultimi anni il CD è stato abbandonato, basta pensare ai lettori delle macchine o ai nuovi Pc oramai senza vano per la lettura. Qualcuno scarica legalmente in formato digitale, poi c’è tanta pirateria ed in fine i veri amanti della musica che continuano ad acquistare e forse (visto il formato vinilico) anche con tanto entusiasmo. In generale di musica se ne vende pochissima, soprattutto rispetto ad anni fa.
La featuring con Raiz direi che è perfetta, la sua voce, il suo modo di farsi cattedratico. L’avete inseguito per questo o anche con lui ha vinto la magia del caso?
Il featuring con Raiz è stato il coronamento di un sogno. Io e Tony non pensavamo potesse interessargli. Sono una persona molto rispettosa per cui il primo contatto è avvenuto attraverso il suo Manager (Beppe Marzano), una splendida persona che conosco da anni. Gli ho spedito una rosa di brani in versione demo tra cui Oh Signor, una imprecazione travestita da preghiera. Un brano estremo con una base ritmica Tribal distorta che si chiude in un’orgia noise chitarristica.
Raiz è per noi una delle voci più belle del panorama italico (a mio personale giudizio anche estero) ed ha sperimentato davvero tanti generi musicali sia con gli Almamegretta che nei suoi album da solista per cui credo abbia scelto questo brano proprio per la singolarità stilistica.
In copertina sbaglio o c’è un rito Voodoo in atto?
No, è una lingua forata da tre chiodi (come nel simbolismo biblico) e rappresenta le malelingue, il pregiudizio, uno dei mali più sottili ma crudeli della società