Lo sguardo di Lia: ABBA, Don’t shut me down

A cura di Lavinia Cafaro

Lo sguardo di Lia

ABBA, Don’t shut me down

Casa di Jo

Il vapore post-doccia – Ph. Lavinia Cafaro

There’s not a soul out there

Una pausa. Provo a mostrare il mio disappunto. Jo sorride.

“No one to hear my prayer”

Un’altra pausa. Prevedo uno show: si abbassa il cappuccio dell’accappatoio.

Gimme, gimme, gimme a man after midnight,

 won’t somebody help me chase the shadows away

Ecco.
Gimme, gimme, gimme a man after midnight
Take me through the darkness to the break of the day

Potevo scoppiare a ridere o mettere fine alle sofferenze di quell’animale da discoteca: ho riso sotto i baffi e le ho tirato la coda dell’asciugamano perché smettesse. Stavamo facendo un discorso serio nella location perfetta, il bagno di Jo annuvolato dal vapore post-doccia, con quel poco tempo a disposizione che ispira le migliori riflessioni: ci attendeva una cena a Trastevere con conseguente caccia all’affare nelle bancarelle estive lungo il fiume.

“Lil hai finito di importunare il mio specchio con i tuoi musi lunghi?”.

Un bell’intervento per interrompere quel soave sottofondo.

“Ma guarda che se non si è ancora frantumato è solo perché il mio muso lungo lo distrae dall’ascoltarti”.

Le ho dato un bacio sulla guancia umida e sono andata ad importunare un altro specchio più fortunato.

È scomparsa quella ruga che ho sempre avuto all’altezza dell’attaccatura dei capelli, per quanto mi sono rilassata quest’estate: Corsica, Elba, Ischia e le solite settimane a Santa Marinella con mio fratello e i suoi amici. Tutte quelle grigliate, le notti improvvisate al porto, i cinema all’aperto. Avevo  perso il senso del tempo, del dovere, della fatica che serve  per rispettare tempi e doveri.  L’unica sveglia che non smette di suonare da ormai due anni, che non ho mai posticipato o silenziato, è la voce di Matteo, il mio ragazzo: lo chiamo.

Trastevere – Ph. Lavinia Cafaro

 

In macchina

 

Dopo diversi miei sbuffi e sospiri, usciamo per essere inghiottiti dalla solita calca della Ostiense del venerdì sera: guida Jo, la sottoscritta è in consolle, quindi partirà tutta una playlist di riflessione e introspezione. Non c’è niente da fare, io in macchina sono così: non ascolto la radio perché è la mia mente a parlare, a viaggiare. E come viaggia, signori miei. È banale dire che vorrei che si avverasse tutto ciò che immagino, ma è così.

 

Lo sguardo di Lia 

 

La cosa sconvolgente è che non immagino improbabili scenette romantiche, grandi momenti di gloria, né mi butto sui ricordi, deformandoli o rimpiangendoli: no. Immagino una platea di persone riunita in un teatro o in un salotto per passare una piacevole giornata, o serata, osservando ciò che faccio, tutto ciò che faccio, un po’ stile Grande Fratello sì. E queste persone non sono degli estranei, ma protagonisti o comparse della mia vita, più o meno legati a ciò che sto vivendo. Pensare di avere gli occhi puntati delle persone che conosco ventiquattr’ore su ventiquattro mi aiuta ad agire meglio nella vita, con misura e parsimonia, ma  allo stesso tempo con spettacolarità, grazia, imprevedibilità. Lo so che è fisicamente impossibile poter seguire la mia vita a trecentosessanta gradi (mi lascio la privacy del bagno), non essendo costretta in un unico spazio, ma avendo piena libertà di movimento. So anche che, probabilmente, se pensassi che veramente ci sono delle persone ad osservarmi in ogni momento della mia quotidianità avrei un’ansia da prestazione non indifferente. Ma quell’istante in cui questa più che remota possibilità mi passa per la mente è un minuto in più che dedico a me stessa, è uno sguardo in più ai miei pensieri più profondi.

Mi capita spesso di immaginare tutto questo, per cui ho pensato che almeno queste pagine dovessero saperlo e perché no, in caso di necessità, essere una manifestazione più materiale di quegli occhi per cui mi starei esibendo. Non ho bisogno di spettatori o di critici, ma non sono nemmeno la persona adatta a scrivere un diario: appunterò ciò che voglio ricordare privilegiando questo piglio originale (che è a sua volta un ricordo).

Detto questo, spero di non ricevere troppi tagli sfogliando queste pagine e di non sporcarmi troppo scrivendole.

Roma, Castel Sant’Angelo – Ph. Lavinia Cafaro

 

Ancora in macchina 

 

Stavo giusto vivendo uno di questi istanti da Big Brother: ascoltiamo Creep dei Radiohead, romantica quanto struggente. Siamo ferme al semaforo, e capto nervosismo e un notevole e intrattenuto desiderio di Jo di mantenere un ferreo contatto visivo con il ragazzo sul motorino accanto a noi.

“Davvero lo stai facendo? Ma se avrà quindici anni?”

Mi risponde: “Probabilmente sedici e tanta voglia di imparare”.

Mica potevo non ridere.

“Poi abbiamo detto basta ai più grandi no?” continua.

“Abbiamo detto basta a quelli mooolto più grandi, JoJo. E sappiamo anche perché” rispondo io.

Ricevo un cenno di invito al silenzio e con un gesto della mano la vedo alzare il volume della radio. Intanto, aveva cambiato frequenza.

 

Jo e Michele 

 

Quelli molto più grandi, già.

Pochi anni fa, la passione travolgente di un lui sei anni più grande di Jo aveva infuocato – e conseguentemente carbonizzato –  la fiducia della mia amica. Mi ero ormai rassegnata al fatto che l’avrei vista partire per l’India insieme a quel gran brutto e affascinante ragazzo che era Michele, conosciuto durante una delle tanti estati a Santa Marinella: quel luogo è per me la parte illuminata di Savana che papà Mufasa dona a Simba; un posto felice per la mia famiglia.

Pur volendo, non potrei raccontare troppo nel dettaglio la loro storia, perché l’hanno sempre protetta molto: quando erano insieme, entravano in un loop quasi ipnotico simile ad una dipendenza data dalla sensazione di libertà che provavano stando insieme. Viaggi, corsi, feste: potrei dire che erano il compagno di vita perfetto l’uno dell’altro ma non per il sentimento che li legava ma per la connessione mentale, la complicità, quella quiete che ti fa sentire a casa ovunque.

Chiunque rincorrerebbe una situazione simile pur di non farsela sfuggire ma non loro che, al contrario, dopo relativamente poco tempo, si sono accorti che un brivido conta più di sorriso, uno sguardo nella stessa direzione meno di uno che brilla negli occhi dell’altro. Si può dire che avessero raggiunto l’equilibrio per poter passare insieme tutta la vita però prima ancora di viverla, passando dall’amore senza fermarsi veramente ma pagando solo la tassa di soggiorno temporanea. Ho sempre ammirato Jo per il coraggio che ha avuto nell’accorgersi che questo tassello mancante fosse l’ostacolo alla loro completa felicità; non ho mai capito invece perché Mike, per dimostrarle che fosse d’accordo, le abbia presentato un amico pronto a prendere il suo posto; secondo me entrambi sapevano di non aver bisogno di sostituirsi ma di non tollerarsi, per riuscire a sopportare lo strappo drastico che avevano dato alla loro relazione. Morale della favola, ora sono entrambi consapevoli di essere il tallone d’Achille l’uno dell’altra, ma niente di più.

 

L’ultima notte nel salotto di Jo 

 

Il salotto di Jo – Ph. Lavinia Cafaro

Fatto sta che l’Achille di Jo, mentre rientravamo da quella serata a Trastevere, si fa vivo nel suo salone. Io non c’ero già più: Matteo mi aveva riaccompagnata in moto a casa. Ed è in momenti come questo che vorrei essere come voi e vedere tutto in diretta.

C’è una finestra difettosa dietro il divano perché Michele, giocando ai mimi, l’ha staccata: è entrato da lì. Non c’è spavento, solo stupore, solo rancore, solo aria di addio: le lacrime di Jo fanno da cornice ad un sorriso amaro che anticipa la domanda “perché siamo di nuovo qui?”.

“Will you leave me standin’ in the hall?
Or let me enter?
The apartment hasn’t changed at all
I’ve got to say, I’m glad”

“Parto per l’India. Ho guadagnato abbastanza per starci qualche mese. Volevo dirtelo perché era il tuo viaggio.”

Come tirare fuori uno stiletto dalla guaina e sentire il metallo tagliare l’aria.

“Hai fatto bene a non scrivermelo soltanto”.

“Lo so”.

Si conoscono, l’ho detto.

“Once these rooms were witness to our love
My tantrums and increasing frustration
But I go from mad, to not so mad
In my transformation”

“Parlerò a loro di te, agli abitanti di quel villaggio che avevamo trovato nell’entroterra. Potrai andarci in futuro e sapranno cosa fare, dove portarti, come parlarti e ti racconteranno di me. Ti sto solo anticipando. Mi serviva un modo per allontanarmi dai miei così, strada per strada, ho scelto di fare la nostra che una parvenza di casa ce l’avrà sempre.”

A quanto racconta Jo lei ha pianto, lui ha riso per poco, sono finiti a letto e lui è partito.

“And now you see another me, I’ve been reloaded, yeah
I’m fired up, don’t shut me down
(Don’t shut me down)
I’m like a dream, within a dream, that’s been decoded
I’m fired up, I’m hot, don’t shut me down”

Roma, ponte di Castel Sant’Angelo – Ph. Lavinia Cafaro

 

Don’t shut me down

 

L’altro giorno il mix personalizzato di Spotify mi ha suggerito questa Don’t shut me down che ho scoperto essere la nuova canzone degli ABBA, uno dei gruppi preferiti di Jo: qui si parla d’amore, di seconde opportunità, di sentimenti da rispolverare, di perdono; se l’ascolto pensando che quelle parole descrivano qualcosa che entrambi dovrebbero a loro stessi, nuove opportunità di essere felici e perdonarsi per i sensi di colpa passati, mi fa sorridere.

Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight), ABBA

Don’t shut me down, ABBA

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