INTERVISTA: Giuseppe Dosi “Ubuntu”

Intervista di Gianluca Clerici

Quarto album per chi in punta di piedi ha raccontato storie, favole e sprazzi di vita. Si intitola “Ubuntu” il nuovo lavoro discografico di Giuseppe Dosi, traduttore che vive a Madrid e che negli anni si è fatto apprezzare per la sua scrittura viscerale e sincera. Un disco che tra blues, jazz e cantautorato ci riporta all’essenzialità dell’animo umano raccontando di una zona di come l’individuo abbia bisogno di condividere le proprie esperienze costruendo così un nuovo mondo.


Quale futuro immaginavi componendo “Ubuntu”?


Sinceramente, dopo tanti anni che mi autoproduco e visto lo scarso successo avuto con i precedenti dischi, sicuramente non immaginavo nessun futuro economicamente felice. Altra cosa è la speranza, quella non costa nulla, di ottenere magari dei riconoscimenti di critica.

I dischi ormai hanno smesso di avere anche una forma fisica. Hai deciso di pubblicare il tuo album solo su Bandcamp. Che forma pensi avrà la musica in futuro?
Il formato sarà quello dettato dalle grandi case discografiche, ma ciò che più mi preoccupa non è tanto il formato quanto la forma appunto, nel senso di quale musica, la globalizzazione ha uniformato sempre di più gli ascolti, e la colonizzazione culturale iniziata qualche decennio fa ha raggiunto livelli sempre più elevati.

Questo capitolo pandemico che ha sconvolto tutte le vite dei musicisti ha bloccato totalmente la presentazione delle produzioni. Ora che c’è uno spiraglio concreto di ripartenza pensi che si riuscirà a tornare con una attenzione concreta alla musica dal vivo?
Spero proprio di sì, sto vedendo che i locali, non solo i festival, stanno riprendendo l’attività. Spero proprio che si ritorni a fare musica dal vivo, d’altronde è fondamentale ritrovarsi, risentirsi, riparlarsi, ricominciare insomma a comunicare di nuovo.

Quali sono le tre canzoni del tuo ultimo lavoro che reputi più coinvolgenti quando ascoltate dal vivo?
Sinceramente non ci avevo mai pensato, probabilmente bisognerebbe chiederlo a chi le ascolta. Personalmente sono molto affezionato a “Lontane”, a “Quello che” e a “Ubuntu”. Ma è un po’ come chiedere a un padre a quale figlio è più affezionato.

Qual è il sentimento che resiste durante la stesura dei tuoi brani?
Probabilmente la dignità, nei confronti di ciò che faccio, di me stesso e che mi porta al profondo rispetto di chi mi ascolta e di chi collabora con me.

Puoi raccontarci di come sono nate le collaborazioni presenti in “Ubuntu”?
“

Ubuntu” ha avuto una gestazione travagliata, è nato e cresciuto in piena pandemia. Era già pronto nell’estate del 2020 ma poi fu impossibile ritrovarsi insieme in una sala per registrare. Così l’estate successiva ho deciso che si doveva fare a tutti i costi. Le difficoltà sono nate dall’apertura delle attività concertistiche e quindi dall’impossibilità di fare coincidere varie persone nello stesso luogo, alla stessa ora e lo stesso giorno. Alla fine, Gianni (Satta) mi ha proposto questa idea del trio con Fabrizio Trullu che non conoscevo personalmente, ma che ha cambiato radicalmente l’idea che avevo delle canzoni, niente basso e batteria per esempio, e che ha apportato un nuovo sound molto interessante.

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