LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: DRAGONI

Intervista di Gianluca Clerici

Un disco come “Incagli” resta dentro le vene almeno per un po’. Sarà questo connubio decisamente delicato che c’è tra il soffice incedere della lirica, il gioco digitale delle parti e quel colore antico di folk d’autore che arriva dall’America di un tempo. Dragoni dal Lockdown ha rapito moltissima dell’ispirazione utile alla causa. Ne deriva un lavoro che va cesellato e si rende cesellabile all’ascolto e noi cerchiamo di dipanare i nostri incagli per far luce sul suo modo di stare al mondo.

Iniziamo sempre questa rubrica pensando al futuro. Futuro ben oltre le letterature di Orwell e dei film di fantascienza. Che tipo di futuro si vede oltre l’orizzonte? Il suono tornerà ad essere analogico o digitale?
Tornare interamente all’analogico credo sia impensabile – anche se ci sono alcuni artisti che vanno in quella direzione con risultati stratosferici (un esempio su tutti il disco di Adrianne Lenker del 2020). Allo stesso tempo, la combinazione di suoni analogici e digitali dovrebbe consentire una maggiore libertà espressiva e una gamma di opzioni più ampia.

I dischi ormai hanno smesso di avere anche una forma fisica. Paradossalmente torna il vinile. Ormai anche il disco in quanto tale stenta ad esistere in luogo dei santi Ep o addirittura soltanto di singoli. Anche in questo c’è un ritorno al passato. Restiamo ancora dentro al futuro: che forma avrà la musica o meglio: che forma sarebbe giusta per la musica del futuro?
La distribuzione digitale ha consentito una maggiore flessibilità al formato con cui proporre la propria musica. Allo stesso tempo, mi sembra che il formato classico di “album”, inteso anche concettualmente e tematicamente, sia in buona salute. E’ un formato con cui quasi tutti gli artisti devono confrontarsi e che finiscono con l’adottare. Mi viene da pensare che anche in futuro non ci allontaneremo molto dal concetto di album per distribuire la musica.

La pandemia ha trasposto il live dentro incontri digitali. Il suono è divenuto digitale anche in questo senso… ormai si suona anche per interposto cellulare. Si tornerà al contatto fisico o ci stiamo abituando alle nuove normalità?
Credo che l’esigenza di contatto fisico sia intrinseca alle persone e ineliminabile. Potendo scegliere, non riesco a immaginare come qualcuno possa preferire un concerto su Fortnite – per esempio – rispetto a un concerto in presenza.

Scendiamo dunque tra le pieghe di questo primo disco. Un lavoro intimo, sussurrato, in cerca di allegorie e messaggi di vita vissuta, fotografie digitali ricche di tanti dettagli e di ricami finissimi che sanno fare la differenza. Dunque: come si inserisce dentro una scena ampiamente devota alla musica leggera digitale, immediata e quasi sempre densa di contenuti superficiali?
Non so, non ci ho pensato molto. Secondo me la musica deve nascere come un’attività spontanea, se uno si mette a pensare troppo a come si inserisce in un certo contesto diventa un processo troppo autoconsapevole – e quindi poco interessante. Detto questo, nonostante una scena caratterizzata di contenuti superficiali, credo che negli ultimi mesi siano usciti tanti album interessanti (poi non so se il mio disco meriti di stare tra questi ultimi).

E poi tutti finiamo su Spotify. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Non sono un esperto, ma credo che l’industria musicale debba evolversi per sopravvivere. Già prima della pandemia, sembrava evidente che il sistema fosse diventato insostenibile, con band e artisti che essenzialmente facevano affidamento soltanto ai live per sostenersi economicamente. Ricordo un’intervista ai Grizzly Bear comparsa su Pitchfork, dove i membri della band dichiaravano di non sapere cosa aspettarsi nel futuro, perché dopo la pubblicazione di un disco guadagnavano bene grazie ai concerti, ma la loro condizione rimanevano precaria e non potevano neanche permettersi un’assicurazione sanitaria negli Stati Uniti. Dichiaravano di non sapere se quello stile di vita fosse sostenibile nel lungo periodo. All’epoca quell’intervista mi aveva molto colpito, perché se neanche i Grizzly Bear potevano “permettersi” di fare i musicisti, allora chi avrebbe potuto farlo? Soprattutto se pensiamo che il mercato per un gruppo che canta in italiano è incredibilmente ridotto rispetto a un band americana o inglese. Non ho risposte, però se l’industria musicale non riuscirà a evolversi in modo sostenibile anche per gli artisti indipendenti finiremmo con l’essere tutti più impoveriti.

Dunque apparenza o esistenza? Cos’è prioritario oggi? La musica come elemento di marketing pubblicitario o come espressione artistica di un individuo?
Solo la sostanza può essere espressione artistica.

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di DRAGONI, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Bauhaus – “All We Ever Wanted Was Everything”

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