INTERVISTE: Gnut – Nun te ne fa [Beating Drum, 2022]

Trascrizione a cura di Valentina Calissano
Foto a cura di Sara Camera

Un Trip immaginario e un viaggio reale a Bologna non ci sono bastati. No, Sara e io dovevamo parlare con Gnut, conoscere il passato e la creazione del disco Nun te ne fa’, distribuito nel 2022 da Beating Drums.
E ci siamo riuscite, grazie a La Fabbrica Etichetta Indipendente, che ci ha accolte in un salottino accanto al palco del Locomotiv Club di Bologna, lasciandoci in compagnia di Claudio Domestico, cantautore di origini napoletane, ma con un cuore che arriva fino al delta del Mississippi, passando per la musica del Mali.

Così è nata questa mirabolante intervista, che spazia dalle canzoni dell’ultimo lavoro alla dimensione più personale delle storie di famiglia. Eccola a voi, in esclusiva su Just Kids Magazine!

Cosa significa Gnut? Da dove nasce?

Gnut di per sè non significa nulla.
È una parola nata nel 2002, come nome della mia prima band, quella con cui ho iniziato a suonare.
Dovevamo partecipare a un festival e durante le prove siamo stati chiamati dagli organizzatori. Non volevo presentarmi sul palco come Claudio Domestico, era poco rock’n’roll! Ma avevamo pochi minuti per decidere, prima che andassero in stampa le locandine.
E così abbiamo iniziato a inventare nomi a caso, cercando quello con il suono giusto. Dovevamo trovare una parola e vi assicuro che inventarsela così in dieci minuti è davvero difficile.
A un certo punto siamo arrivati ai suoni onomatopeici. Slurp, slack, chiap, trap, kik, prot… GNUT!
Gli altri mi hanno guardato dicendo che era bellissimo. «Ma si scrive proprio G-N-U-T?», e io «Non lo so, mi è venuto così».

In quel momento squillò il telefono: «Ci chiamiamo Gnut. G-N-U-T, mi raccomando».
Hanno stampato la locandina dell’evento con questo nome e alla fine abbiamo anche vinto il festival.
È rimasto per qualche anno, finché la band non si è sciolta. Poi, un po’ per pigrizia, me lo sono tenuto io. Tanto ormai mi chiamavano tutti così.
Se mi avessero chiamato due secondi prima sarei stato per sempre SLURP.

Gnut viene anche pronunciato in modi diversi. Per esempio in Francia i suoni della ‘g’ e della ‘n’ sono separati. Oppure in alcuni dialetti significa qualcosa. In bresciano vuol dire maiale.
E questa è la mia soddisfazione più grande.

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Claudio Domestico durante l’intervista. Foto di Sara Camera

Quindi ora ha anche più di un significato!
Ma che senso vuoi dare tu al progetto Gnut?

Dopo aver fatto il primo disco con la band, sotto questo pseudonimo ho iniziato a raccogliere tutta una serie di canzoni di cui mi vergognavo un po’. Erano quelle troppo intime, personali, raccontavano i fatti miei.
Come un pezzo che si trova nel primo disco, difficile se non impossibile da reperire, come un fantasma. Una traccia che non volevo registrare, ma che ho dovuto inserire per completare l’album e che ha fatto emozionare tutti moltissimo.
Allora ho capito che condividere le proprie fragilità è la cosa più emozionante che la musica, o qualunque forma d’arte, può fare.
Da quel momento ho iniziato a raccogliere queste canzoni nel progetto Gnut, pezzi intimi e personali.
Certo, lavoro anche ad altri progetti, perché come diceva Pirandello abbiamo tutti diverse sfaccettature. E tra queste Gnut rappresenta il mio lato più sensibile ed emotivo.

Tante canzoni sono nate come sfoghi, nel cuore della notte. Mi hanno emozionato parecchio quando le ho scritte.

Quale musica ti ispira a comporre brani?

Nel mio modo di suonare e scrivere c’è la summa di ciò che ho ascoltato e letto nel corso degli anni, quindi non solo musica, ma anche libri. È il risultato dell’esperienza.
Però ho dei maestri che mi hanno insegnato tanto. Se devo fare dei nomi mi vengono in mente Nick Drake, Elliot Smith, Skip James, un bluesman del delta del Mississippi. Poi c’è la musica africana del Mali.
E da qualche anno sto riscoprendo le mie radici con la canzone popolare, la canzone classica napoletana, molto presente nell’ultimo album. Sto facendo una ricerca sulle villanelle del Settecento, anche grazie a Michele Signore della Nuova Compagnia di Canto Popolare, che mi sta guidando alla scoperta di musica antica ma modernissima.

L’ultimo disco è il risultato di questa ricerca che ho iniziato ormai qualche anno fa.
Mi sono reso conto che le origini per un artista sono fondamentali. Per anni sono stato affascinato dalle cose che arrivavano da lontano, come il blues.
Ora le varie influenze esterne restano, ma ho compreso che dare un valore più grande alla mia musica significa fare i conti con quelle che sono le mie radici. Con le canzoni che ascoltava mio nonno, che ascoltavano i miei antenati.

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Claudio ci racconta quali generi musicali lo ispirano. Foto di Sara Camera

E questo ci porta al brano Colpa mia, in cui si sente la ricerca della tradizione, delle origini, del passato. C’è la tammorra e un canto antico.

In realtà in quella canzone mi sono ispirato ai Beatles per tutta la prima parte. Qualcosa mi ricordava John Lennon, ma non riuscivo a capire cosa fosse. E mentre componevo ho sentito il desiderio di creare un ponte tra i Beatles e le mie radici.
Così ho scritto la parte finale per farla diventare una tarantella.
Lavorando con Michele ho avuto l’onore e la fortuna di coinvolgere Fausta Vetere, cantante storica della NCCP, la voce de La gatta Cenerentola di De Simone. Una voce che sento davvero vicina alla mia terra e alla mia tradizione, anche per l’incredibile ricerca sulla musica del Settecento che hanno fatto.
Credevo avrebbe inserito solo dei vocalizzi, invece lei ha proprio scritto un testo, ispirandosi a brani spirituali. È diventata quasi una preghiera. Perché ha colto il cuore dei brani antichi nati come suppliche per scacciare via le energie negative e tenere solo il bene, ciò che è positivo. Cacci il male e prendi il bene.

Le villanelle del Settecento sono le antenate delle canzoni come le conosciamo noi oggi.
E lei, pensando agli alberi di limone, chiede alle foglie della pianta di lasciarle benessere e serenità e portarsi via il male. E la tecnica che ha utilizzato nel canto veniva usata spesso nel Settecento, si chiama proprio fronna ‘e limone: questo vibrato che assomiglia a una foglia che oscilla nel vento, potentissimo. Molto forte perché una volta non c’erano amplificatori e microfoni. Quindi sia il cantato che gli strumenti dovevano essere fortissimi e farsi sentire nelle piazze.

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Valentina Calissano fa anche troppe domande. Foto di Sara Camera

Invece l’ultima canzone dell’album, Nuvola, è puro blues.

Si, è ispirata proprio alla musica blues del delta del Mississippi. È una zona che mi ha colpito molto quando l’ho visitata qualche anno fa.
Nell’immaginario comune la voce blues è roca, come quella di Joe Cocker, mentre i primi cantanti blues acustici avevano delle voci molto sottili e acute, come Skip James o Robert Johnson.
E proprio guardando un documentario su quest’ultimo, ho deciso di fare blues adottando questo registro. Volevo fare un blues lontano dallo stereotipo della voce roca, ma risalire alle origini del genere.

A me piace molto il primo blues, il filone che nasce come evoluzione del canto gospel. Erano schiavi che durante il giorno lavoravano nei campi di cotone, poi nei weekend raccontavano le loro disavventure attraverso la musica.
Di certo c’è un filo, seguito anche da Pino Daniele, con la città di Napoli. Noi siamo vicini a questa realtà: il Sud America è molto vicino al sud Italia, nel bene e nel male.

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Una panoramica della saletta attigua al palco del Locomotiv Club. Foto di Sara Camera

Una domanda sulla copertina. Come mai hai scelto il Cristo di Maratea?

La scelta è stata di Piers Faccini, il produttore artistico dell’album.
L’idea iniziale era raccogliere una serie di foto di famiglia e fare un collage che creasse il mio viso. Questo significa che ho dovuto scannerizzare 650 foto per poi mandarle a lui.
Però tra tutte queste ne ha scelta una sola!
(Più qualcun’altra nascosta nella copertina).

Si è innamorato dell’immagine prima da un punto di vista grafico. E poi per il significato che rappresenta. Le braccia che si allargano, che vanno verso l’alto, come a spingersi verso una dimensione spirituale.
In più la persona fotografata davanti al Cristo è mio padre, mio padre alla mia attuale età. Quindi c’è anche la mia famiglia, c’è nascosto ma visibile il senso di una ricerca che parte dalle mie radici e prosegue sempre in avanti.

Se l’intervista ti è piaciuta non perdere il report del concerto di Gnut a Bologna, presso il Locomotiv Club.
In più puoi immergerti nella lettura del Trip Una luce chiara, nato dall’ascolto del disco Nun te ne fa’.

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