LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: JELO

Intervista di Gianluca Clerici

Il rap metropolitano, quel gusto estetico che tanto richiama il quartiere di provincia nel pieno degli anni ’90, sul loro tramonto e sulle nuove albe digitali. Incontriamo Luca Hardonk, in arte Jelo, lo incontriamo al suo esordio, un’alba anch’essa… “Sintesi” è un primo lavoro, un EP che dal titolo ci fa capire quanto la vita sia sempre un punto fermo per i propri conti personali. A lui dedichiamo le nostre consuete domande di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
Nel mio disco ci sono moltissimi strumenti suonati da musicisti perché a parer mio la musica suonata trasmette molto di più; più in generale penso che i computer abbiano preso il sopravvento perché richiedono una sola conoscenza e non tante specifiche per ogni strumento. Voglio però dire che per fare musica al computer ci vuole, oltre alla tecnica, la stesa artisticità e fantasia che serve con un vero strumento, anzi forse anche di più visto che la resa musicale è minore. I computer per me sono veri e propri strumenti musicali che utilizziamo per creare ambienti, per dare quell’effetto allo strumento vero che cambia completamente la resa emotiva di un’ipotetica canzone.

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
Nell’ultima decade circa, il mercato musicale è cambiato notevolmente, in realtà però tornando indietro: prima del periodo dei Beatles la musica era dominata dai singoli e dai 45 giri e così è stato per molto tempo; dopo sono venuti I dischi, i concept album etc.. Ora in qualche modo si sta recuperando questo sistema e di per sé non è un problema.
Se però uniamo questo, che significa più progetti e proposte sul mercato, al fatto che chiunque può pubblicare quasi qualsiasi cosa allora incontriamo un problema, ma un problema per chi? Il fatto è che per qualcuno sarà un bene, per qualcun altro no; la libertà ha sempre molte facce e quella digitale è forse la peggiore.

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
La mia opinione è che il futuro per come è inteso oggi non ha tante possibilità di esistere; perché? Perché il sistema globale non regge, spreme la sua casa (il pianeta) e ha miliardi di lacune; quindi sì, sono sicuro che per molti versi sarà necessario tornare indietro. Per quanto riguarda la musica penso che ripescare metodi e strumenti del passato sia un quid in più che alla musica digitale manca, il mercato della musica invece a parer mio tornerà indietro come tutto ciò che è stato invaso dal capitalismo estremo e dalla smania di consumo.

Decisamente un Rap metropolitano, un R’n’B distopico come lessi in una recensione tempo fa. Certamente il linguaggio è quello moderno e qui, parlando di “Sintesi”, mi viene da chiederti: a proposito di cliché con cui identificare i giovani di oggi, esiste però un altro modo di comunicazione oppure siamo tutti allineati su un’unica via?
Il modo di comunicare si evolve con la storia, con l’uomo; e noi siamo la generazione del COME: conta più come fai una cosa, come vendi un prodotto, come ti poni, della cosa in sé, del prodotto in sé, o di cosa volevi dire. Quindi la spiego così: voglio far arrivare il COSA a chi non importa, e il COME di noi giovani a chi lo scredita a priori. Questo è uno dei miei più grandi obbiettivi come autore. Premesse le generalizzazioni, penso che ognuno abbia il suo modo di comunicare e spesso, sempre di più, non coincide con il linguaggio. Bisogna conoscere una persona per saperci comunicare profondamente, quello che può fare un’artista secondo me è cercare quelle emozioni inconfondibili, in cui è difficile non ritrovarsi e parlare di se stesso. La persona che verrà conquistata da una canzone percepirà di essere conosciuta dall’artista.

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Cito una frase: “ se è gratis, il prodotto sei tu”. Il sistema di internet riesce ad essere gratuito perchè il suo guadagno sono i nostri dati, che gli permettono di sapere cosa ci piace dove siamo con chi e perchè; per poi venderci e proporci cose inerenti e aumentare la probabilità di riuscire. Paghiamo così l’internet. La stessa cosa vale per la musica gratuita ovviamente. C’è da dire che anche prima di Spotify esistevano servizi gratuiti legali e non come NAPSTE o altro. Ancora prima si facevano le musicassette registrate dai dischi quindi in un certo senso c’è sempre stata musica gratuita. Sicuramente però la scomparsa dei CD, LP e dei supporti in generale ha comportato un enorme cambiamento per gli artisti, che oggi hanno più difficoltà a vivere di sola musica. Può suonare come un paradosso lavorare nella musica che sta diventando gratuita, ma è solo l’altra faccia della libertà di espressione e la possibilità di raggiungere int un attimo tante persone: se milioni o miliardi di persone potessero, come è, pubblicare ognuno dieci canzoni online ma per ascoltarle bisognasse pagare 20 $ a traccia? Non sarebbe possibile. E comunque ovviamente oggi si può comunque sostenere un artista con il founding, con i live, i social e molto altro.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
È molto difficile, onestamente. L’era dell’apparire ha un pessimo effetto su chi la vive, o meglio su chi ci è nato. Ovviamente ognuno reagisce in modo diverso, ma questa necessità sociale di essere online, di essere social invece che socievoli, sta uccidendo i nostri cervelli. Siamo pieni di paure, insicurezze, depressione; manchiamo di forza di volontà, di fantasia, di lessico. Per rispondere alla domanda la penso al contrario: più posti meno esisti, e ovviamente mi riferisco alla vita personale non a chi lo fa per lavoro. L’esistenza reale, l’essere attivi nella vita, è incompatibile con l’essere attivi online; motivo per il quale non condivido i social come passatempo o dimensione alternativa, spero che vengano aboliti ai minori e che lo “scrolling” non sia più una delle azioni più compiute al mondo.

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Jelo, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
“Scivola vai via” di Vinicio Capossela.

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