LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: ANDREA MIRÒ

Intervista di Gianluca Clerici

Il tempo. Ormai carriere lunghe anche “solo” 20 anni sembrano impossibili per le nuove generazioni di questo nuovo tempo, tempo liquido, istantaneo, digitale. Sembra assurdo restare sul pezzo così a lungo e sempre con la stessa faccia. Andrea Mirò lo dice a gran voce quanto tempo ha sulle spalle, di musica certamente… 20 anni (anzi, per la precisione 23) che festeggia con questa raccolta di 38 brani titolata “Camere con vista”. Che la vita l’osserva e l’ha osservata da tanti posti diversi, luoghi e momenti, vissuti e canzoni. Un disco dove il grande pop d’autore si mescola al cambiamento di una stessa faccia. Che poi alla fine non è mai sempre la stessa… e quando capita di avere nomi così importanti, altrettanto importanti è seminare le consuete domande sociali di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
La musica continua ad essere suonata e continuerà ad esserlo, per il gusto di suonare uno strumento anche se fosse solo un mestolo sul retro di una pentola, e perché nasce ai suoi primordi proprio dal copiare suoni e rumori della natura, anche solo con la voce. I mezzi, quelli sì, nel tempo sono cambiati e si sono moltiplicati, quindi credo ci sia semplicemente una scelta più ampia a cui far riferimento, per supportare i progetti musicali. E per alimentare la creatività. Credo che l’elemento umano per ora sia ancora l’elemento cardine insostituibile.

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
La fruizione bulimica e consumistica dell’usa-e-getta è la modalità del nostro vivere, musica inclusa. Non tutta però, perché esiste chi si dedica o ama lo slow food, per gustare con calma e tempi più dilatati, ed esiste chi chiede alla scena musicale qualcosa di più che una hit che duri qualche mese, chi ascolta musica cercando una cifra artistica che sia progettuale e che abbia un contenuto che va al di là della storia minima ma sappia trasfigurare la storia minima in una più universale. Da questo punto di vista, questo È un mestiere, quindi prevede competenze, sensibilità strutturata e alimentata nel tempo, capacità tecnica (qualunque essa sia, digitale o analogica), creatività che non derivi da un semplice copia-e-incolla, per essere destinata a rimanere. Secondo me tutto dipende dagli obiettivi che uno si pone, come concepisce il suo lavoro, quanta passione e impegno mette nell’esprimerlo.

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
Credo che preservare ciò che è la storia musicale (ma, in senso più generale, la cultura tutta) sia un impegno fondamentale: l’avanzare tecnologico dovrebbe esser sfruttato per alimentare/supportare/approfondire le capacità e i contenuti che man mano nel tempo si aggiungono, non sostituirli. La voglia di ritornare alle origini è stata sempre un desiderio che le nuove generazioni hanno provato, ma ciò non significa buttare il nuovo per il vecchio o viceversa, ma aumentare il bagaglio che già ci portiamo dietro. Dobbiamo addizionare non sottrarre. In più, come sempre nella Storia, il passato serve per decifrare il futuro. Anche nella musica. Dopodiché è sempre una scelta: si può ascoltare un disco tranquillamente sulle piattaforme digitali – compresso all’inverosimile – il che è comodissimo e fattibile ovunque; e/o decidere di ascoltarsi determinati prodotti artistici su vinile, per sentirne in analogico tutto lo spessore sonoro.

Il tempo. Sono 20 gli anni racchiusi dentro questo doppio disco. Sono tanti i dischi, tante le canzoni… la storia di una persona diviene anche un riassunto di quel che fa. Oggi si da molto poco spazio alla storia, alla memoria. Tutto è veloce e facilmente replicabile. Un disco del genere in tal senso va un po’ contro questo tempo nuovo… che tipo di messaggio pensi che possa lasciare alle nuove generazioni?
Prima di iniziare la mia prossima avventura musicale, m’è parso giusto dover mettere a fuoco, nel modo più completo possibile, la mia produzione artistica come cantautrice fino ad oggi. Le 38 tracce servono a capire l’eterogeneità dei contenuti compositivi e la varietà degli stili che mi contraddistingue, sono un’artista poco incasellabile che ha fatto un percorso abbastanza fuori dagli schemi soliti, sfuggendo alle categorie. È per chi mi segue da sempre e nel cammino può essersi perso qualche particolare interessante, e per chi invece ancora non sa nulla di me. Mi capita spesso di scoprire ragazzi più giovani che mi ascoltano: vorrei potesse essere più che altro un esempio di coerenza d’intenti e di stile che non si crogiola semplicemente nel comfort delle mode; in sintesi, di libertà d’espressione.

Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
La verità è che se la tua musica oggi non esiste sulle piattaforme come Spotify, è come se non esistesse nella realtà. Nessuno si è battuto granché perché venissero fatte leggi che preservassero l’integrità e il valore del prodotto dell’ingegno degli artisti, anzi s’è perso il senso del valore e del peso specifico del prodotto dell’ingegno artistico; gli artisti sono stati messi in dovere di esser presenti su tali piattaforme, e sappiamo bene che, perché ciò abbia un’incidenza sulla loro sussistenza, i numeri devono essere letteralmente enormi. Questo crea una forbice allargatissima e potrebbe essere a discapito della qualità, della varietà, e della sopravvivenza di progetti validi minori ma alternativi, quindi del loro affossamento naturale. Finita ormai l’epoca della vendita fisica, l’unico sbocco reale sono i live; ma non è mica così semplice né scontato né consequenziale. Aggiungendo inoltre che post pandemia molte realtà interessanti e propositive, come i piccoli locali, non sono sopravvissuti. Potrebbe presentarsi una scena dove solo chi ha fondi sufficienti potrà produrre musica di livello? È una domanda più che legittima.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Questa domanda è legata alla precedente, alla fine giocoforza siamo tutti sui social, ognuno con la sua personale cifra comunicativa. Ma anche lì esistono delle linee-guida “alla moda”, che non appartengono a tutti. Senza parlare del fatto che molti della generazione meno digitale (come me) sono cresciuti senza la smania di postare ogni momento personale della propria vita come fosse un evento, ma nel viverselo tutto senza pensare ad altro, senza pensare che il vestito addosso fosse il più figo o se il rossetto fosse della marca più cool.
La libertà con cui sono cresciuti i miei coetanei è imparagonabile al diktat social di oggi, alla griglia rigida a cui devono sottostare i ragazzi in questi anni. La parola più comica che mi viene in mente oggi è “privacy”. Da ribaltarsi (amaramente) dalle risate.
Eppure questi strumenti possono essere – e sono spesso – un modo interessante per arrivare a tanti, per scambiarsi visioni/informazioni/scoperte, per dibattere civilmente (difficile ma possibile) su temi importanti … Come sempre la misura con cui si è soggetto attivo o passivo (o oggetto) dipende dal singolo. Purtroppo credo che la tecnologia galoppi molto più velocemente della crescita della coscienza umana. Detto questo, c’è chi vive serenamente senza social (ma alla fine sono praticamente tutti delle generazioni passate)

A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Andrea Mirò, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Ah! Difficile scegliere per me… Al volo, due opzioni diversissime: “À quoi ça sert l’amour?” di Piaf , più teatrale.
Oppure “New body rhumba” di LCD Soundsystem , con balletto come nel finale del film White Noise di Baumbach , così si balla tutti quanti!

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