LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: LE FREQUENZE DI TESLA

Intervista di Gianluca Clerici

Voce al secondo album de Le Frequenze di Tesla, formazione bolognese che vede (copi testualmente) Enrico Fileccia alla voce, chitarra ritmica e solista, basso, piano e tastiere Matteo Cincopan alla voce, chitarra ritmica e solista, basso, piano elettrico e minimoog… e infiine Vinicio Zanon Santon alla voce, batteria, percussioni. Eh si, sono corali spesso le voci, sono trame di quel surf pop che i Beatles hanno inventato e reso famoso ovunque nel mondo. Si intitola “Il robot che sembrava me” questo disco “sociale” dai toni pop, dolcemente rock, sicuramente vintage se pensiamo quanto sono evidenti i rimandi ai Fab Four ma non solo… un lavoro ricco di richiami che sicuramente si staglia dall’omologato mondo della scena indie-pop digitale che ormai un poco pare anche contraddirsi.

tesla album

Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
Enrico: Secondo me questa crisi esistenziale del mondo artistico contemporaneo ha le sue radici nel periodo storico d’incertezza economico-sociale che stiamo vivendo. L’arte è sempre uno specchio della società in cui si manifesta e in un momento in cui le incertezze sono sempre maggiori e i punti di riferimento sempre più labili si ricerca nell’arte un appiglio sicuro a cui aggrapparsi. La crisi di fiducia conseguente alle già citate difficoltà contingenti ostacolano la ricerca di novità e sperimentazione a scapito di territori già battuti, meno originali ma più confortanti.

Matteo: Probabilmente un po’ dell’una e un po’ dell’altra cosa: il pubblico di oggi è abituato a una fruizione veloce e di tipo “usa e getta”. Chi fa musica, letteratura, cinema etc. cerca di adeguarsi a questi nuovi ritmi. Tutto questo influisce sull’evoluzione dei linguaggi, che a loro volta influenzano i cambiamenti nello scrivere canzoni, libri, sceneggiature e così via. Probabilmente non è possibile dire da quale delle due parti sia stato innescato questo processo.

E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca –  l’appartenenza al sistema?
Matteo: Questo disco (come anche il precedente “Numeri primi”) è il frutto del nostro incontro come persone: quando suoniamo ognuno di noi dà il suo contributo allo sviluppo delle canzoni (in base alle proprie esperienze e il proprio gusto personale). Se cambi gli elementi del gruppo viene fuori un disco diverso. Per quanto riguarda l’appartenenza al sistema, il nostro è un album fatto da esseri umani per altri esseri umani. L’essere umano è un animale da branco e in quasi tutto quello che fa c’è un desiderio di aggregazione.

Enrico: Non si può non appartenere al sistema, è un paradosso anche solo pensarlo. Questo disco cerca di fare riflettere sul mondo di oggi visto dalla nostra prospettiva. Il suo è un fine principalmente descrittivo

Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Matteo: Più che inseguirsi, ci si ritrova. Quando inizi a fare musica lo fai per te stesso; nel momento in cui vuoi condividerla rivolgi il tuo sguardo agli altri e cerchi una sintonia. Dall’altra parte, il pubblico si affeziona a un sound e a un certo tipo di canzoni e quando ti viene a sentire si aspetta di ritrovarli.

Enrico: La musica si fa sempre per se stessi in prima istanza, se questo poi porta a un riscontro nel pubblico può solo fare piacere ma il punto di partenza deve essere avere qualcosa da dire.

E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
Enrico: Credo che la musica vada fatta per se stessi ma (riallacciandomi a una domanda precedente) non si può ignorare il fatto di essere parte del sistema. Viviamo in un mondo dinamico costituito da una moltitudine di interessi e prospettive diverse. Il segreto sta nel trovare un equilibrio tra la propria volontà di autodeterminazione individuale e il sentirsi parte di una struttura sociale più grande. Dedicarsi solo a uno dei due estremi non è funzionale.

Matteo: Il pavoneggiarsi sui social avviene su più livelli e in più ambiti. Se fai musica per lavoro, puoi portare avanti un tuo manifesto artistico e fare musica nel modo più compatibile possibile con le tue idee. Non puoi ignorare completamente il pubblico ma questo non significa pavoneggiarsi. Quello che cerchiamo di fare con la nostra musica è prima di tutto stabilire un contatto.

Dietro questo lavoro si nasconde un punto di vista a cavallo tra un passato che non può essere dimenticato e un futuro che non riusciamo ancora bene a codificare. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
Matteo
: Non è facile rispondere: c’è, a monte, una presa in considerazione di alcune caratteristiche della nostra società e alcuni suoi “vizi comportamentali” e, in una certa misura, ci piacerebbe riuscire a proporre una nuova prospettiva per andare oltre. Questo nostro album vuole porsi come punto di partenza. Le soluzioni, però, vanno cercate insieme.

Enrico: Il disco descrive la vita di tutti i giorni ma lo fa mettendosi in una prospettiva alternativa. Un possibile messaggio è quello di guardare alla vita di tutti i giorni da un punto di vista diverso, senza dare allo stesso tempo una guida rigida all’ascoltatore. Vuole indurre alla riflessione sulla routine quotidiana senza però rendere esplicito l’oggetto di questa, lasciando invece questo compito all’ascoltatore.

Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Enrico: Ritengo che il motivo principale sia nel bisogno di trovare un punto di riferimento in chi si rivolge al mondo artistico. Si fanno meno live perché la musica dal vivo è per definizione (tranne rari casi) qualcosa di sperimentale, le canzoni spesso sono arrangiate diversamente rispetto che su disco e l’ascoltatore medio spesso preferisce rifugiarsi in ciò che già conosce.

Matteo: Secondo me la buona musica c’è ancora, semplicemente è annegata in un mare di rumore di fondo e la gente ha le orecchie sature. Ai concerti non manca il pubblico ma è diventato più esigente: si aspetta un livello qualitativo molto alto e, rispetto a un tempo, è meno disposto ad accettare compromessi come la sperimentazione di cui parlava Enrico.

E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Enrico: L’obiettivo del disco non era né incontrare le persone, né allontanarle: era descriverne la quotidianità in un’ottica differente e a volte provocatoria. Comunque tante persone ci hanno detto di essersi ritrovate molto in alcune canzoni, questo fa sempre piacere ovviamente.

Matteo: …Direi che le incontra sicuramente molto più di quanto le tenga a distanza!

E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto de Le Frequenze di Tesla, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Enrico: Non è semplice rispondere a questa domanda, a istinto dico “Ancora tu” di Lucio Battisti.

Matteo: Domandona! Noi tre veniamo da esperienze e ascolti molto diversi e ognuno potrebbe dire la sua. Per quanto mi riguarda io saluterei il pubblico con “Tomorrow never knows” dei Beatles: un brano del 1966 che ai miei occhi sembrerà sempre avanti di dieci anni anche rispetto alle cose attuali. C’è dentro veramente tutto!

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