LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: PORTFOLIO

Intervista di Gianluca Clerici

C’è da dire che un certo tipo di soul nero d’America non è qualcosa che tramonterà tanto facilmente come invece è capitato ad altri generi. E per quanto sono sempre i soliti nomi a tornare immediatamente alla mente, il nuovo disco dei PORTFOLIO si gioca carte di grandissima personalità a partire proprio dalla title track che mette in campo anche un video ricco di fascino. Un disco ammiccante, di derive non prevedibili, di strumentali trasgressivi e di forme pop internazionali molto classiche. Come fosse l’istinto in piena evoluzione. A loro le consuete domande di Just Kids Society:

Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?

Forse in realtà ci sono troppi dischi. 

Il mondo digitale ed il web hanno permesso a tutti di fare dischi. E certamente sono uscite cose molto interessanti, in particolare in ambito hip-pop, che probabilmente 20 anni fa non sarebbe uscite sul mercato. 

Dall’altro lato non c’è più nessun filtro qualitativo rispetto al passato, laddove erano le etichette a garantite un certo livello medio nelle produzioni; e soprattutto si è generata un’ offerta molto superiore alla domanda, anche perché come dici giustamente mancano interesse ed una certa cultura dell’ascolto nelle nuove generazioni.

L’ascolto per intero di un disco è diventata una rarità, è innegabile che Il linguaggio stia cambiando molto velocemente: un buon singolo ed un buon video sono diventati molto importanti, molto più di un buon disco, così come il saper utilizzare al meglio i social. Bisogna cercare di adattarsi a questo nuovo linguaggio e per un gruppo come il nostro, che arriva da un “era” pre-social, non è facile anche se allo stesso tempo può risultare molto divertente.

In sintesi fare un disco oggi è diventato probabilmente piuttosto inutile, meglio concentrarsi su singoli, video ben fatti e pagine social piene di belle foto e #.

 
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca –  l’appartenenza al sistema?

Stefi Wonder cerca di essere coinvolgente dal primo all’ultimo brano. Questo è quello che abbiamo sempre avuto in testa. Un disco fatto da bei brani, dal primo all’ultimo. E cerca di avere una propria (forte) personalità, certamente

Non ci interessa e non ci è mai interessato fare parte di un sistema o di una scena- men che meno della scena indie / alternative che, anzi, in questo disco sbeffeggiamo un poco. 


Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?

Nel nostro caso sicuramente fare musica per soddisfare noi stessi cercando di rinnovarci e sorprenderci sempre. Senza dimenticare che il fine ultimo è vendere dei dischi (so che può far ridere dirlo oggi…), essere ascoltati sulle piattaforme streaming e soprattutto suonare davanti ad un pubblico. Quindi se l’aspetto di soddisfare noi stessi è il punto di partenza di ogni cosa che facciamo, quando scriviamo un pezzo cerchiamo di realizzarlo in modo che possa piacere al maggior numero di ascoltatori possibili.

E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?

Fare un disco è faticoso oltre che dispendioso, promuoverlo ancora di più, per non parlare della difficoltà di trovare date in locali seri ed attrezzati, con un cachet dignitoso.

I social sono diventati un mezzo per cercare di portare un poco di visibilità e di attenzione sulla propria musica e quindi per questo sono utilizzati dalle band.  Questo è il nostro pensiero.

Più che bisogno di apparire parlerei di necessità di apparire – come un brand che produce scarpe cerca di promuoverle sui social, una band cerca di promuovere la propria musica: non ci vedo niente di strano.

Un lavoro che attinge all’America della costa ovest, al sole, a quel certo gusto leggero, soul, sbarazzino ma anche assai ruffiano. C’è un forte sex appeal dietro le melodie di “Stefi Wonder”. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?

La vita di tutti i giorni è molto spesso grigia, triste e noiosa; questo disco ha un attitudine totalmente contraria – sbarazzina, divertita e libera.

L’immaginario che via via ha preso piede nella produzione del disco è quello legato alla  California “peace and love”, della libertà e della leggerezza nel vivere, con un approccio da provincia emiliana, e questo ci è sembrato piuttosto divertente. Anche se per noi la musica e’ una cosa molto seria:siamo molto scrupolosi su ogni aspetto di un brano, nei suoni, negli arrangiamenti e  nelle atmosfere create. Pero’ ci divertiamo a suonare e volevamo che questo spirito emergesse dai testi e dalla musica. Crediamo che l’ironia ed una certa attitudine più leggera possano essere un valore aggiunto quando un progetto e’ fatto seriamente. 


Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?

Entrambe le cose, unito ad altro. Si è creato un circolo vizioso molto complicato da risolvere. 

Per le band meno famose è sempre più difficile andare in giro a suonare; i locali che fanno musica live sono sempre meno e preferiscono andare sul sicuro con cover band, dj set o con le band più affermate. Che a loro volta per campare devono, giustamente, puntare forte sul live, visto il peso residuale che le vendite dei dischi hanno assunto nell’economia di un gruppo, riproponendo magari album di successo dal passato e celebrazioni di ventennali di carriera.

E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?

Il nostro obiettivo è quello di raggiungere il maggior numero di persone possibili. Suonare in giro e sapere che qualcuno è venuto apposta a sentirci è la più grande gratificazione per noi.

E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto dei Portfolio, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?

“Dayvan Cowboy” dei Boards of Canada. 

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