LE INTERVISTE DI JUST KIDS SOCIETY: ETTORE FILIPPI

Intervista di Gianluca Clerici

Quando il tema della conversazione riesce a stuzzicare le corde della riflessione ed il dialogo diviene importante per i lettori, importante anche per noi che lo realizziamo. Ospite della rubrica sociale di Just Kids è l’ex leader degli RSU, visionario cantautore dalle tante derive di stile. Parliamo con Ettore Filippi al suo “esordio” personale dal titolo “Verso Sera”. Un disco di grandissima intensità spirituale e visionaria che si adagia su contorni decisamente più dolci e appaganti nonostante le radici underground dei suoi Rifiuti Solidi Ubrani. C’è tanto da chiedere ad un artista come Ettore Filippi. Magari a breve ne faremo un approfondimento. Per ora ci gustiamo il suo punto di vista sociale per le consuete domande di Just Kids Society… e non ci stupisce affatto che Mahler sia tra i suoi ascolti.

Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?

Credo che il tema della musica e della sua fruizione rappresenti oggi una questione cruciale, soprattutto da quando le nuove piattaforme streaming hanno cambiato radicalmente il nostro approccio all’ascolto. Ormai non si comperano più  dischi  (anche se  il vinile sembra riprendere un po’ piede), venendo meno così  l’ascolto mirato. Ma è altrettanto vero che c’é in giro tanta, troppa musica, che occupa sempre più il nostro spazio sonoro: bar, negozi, ambienti di lavoro, la possibilità di ascoltarla ovunque e comunque hanno tolto alla musica quella caratteristica di momento peculiare dedicato al rapporto fra noi e l’arte dei suoni.. Vi è una sollecitazione costante che in parte credo ipertrofizzi questo nostro versante sensoriale rendendolo paradossalmente meno elastico e versatile. E non credo si tratti di un problema di linguaggio più o meno standardizzato. È che si fruisce diversamente della musica stessa, che da sempre ha rappresentato un momento di condivisione collettiva, diversamente declinato nelle varie occasioni ed epoche, ma che dall’avvento della tecnologia ha via via mutato il paradigma della sua fruizione. In questa prospettiva il mio è un lavoro destinato a perire, giacché  pensato per un ascolto che necessita del suo spazio e dei suoi tempi. 

Se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca –  l’appartenenza al sistema?

Questo mio lavoro lo considero “personale” nella misura in cui all’ascolto vi ritrovo chiaramente parte di me. Sarà il sistema poi ad individuare eventuali elementi narrativi ed estetici significativi per poterlo accogliere nelle sue fila.

Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?

Nella prospettiva dell’arte, fare musica è sempre una necessità personale. Si fa musica sempre per dare vita ad una parte di te che è lì, in attesa di essere espressa, che ha bisogno di essere espressa. Ciò non toglie che il cerchio si chiuda solo quando vi è una risposta da parte del pubblico. 

E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?

Da quando è stato sdoganato il quarto d’ora di notorietà per tutti, si sono in effetti mischiate un po’ le carte. Ma nel nostro caso non si tratta di apparire, bensì di essere, poiché ripeto si è musicista solo se dall’altra parte ora, domani, qui o altrove, vi è un pubblico che condivide il tuo lavoro. Poi dipende se sei un musicista pavone o solo un pavone… questo è un altro discorso.

Un disco in bilico tra la psichedelia e il jazz, tra la canzone d’autore e l’ambient progressivo. Dall’elettronica ai suoni intimi. Un disco ricco di nebbia che non acceca ma che invece sfuma i contorni. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?

Questo disco è per me alterità rispetto alla vita di tutti i giorni. O meglio rappresenta quelle zone, quei momenti nella quotidianità, in cui si apre lo sguardo sull’altra faccia del nostro stare qui ed ora. Non è una prospettiva di fuga dalla realtà, tutt’altro. L’arte in generale dovrebbe credo suggerire e  promuovere una diversa prospettiva nello sguardo quotidiano sul reale.

Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?

Non saprei dirti se il live stia scomparendo o meno, non ho il polso della situazione, ed anch’io non sono un gran frequentatore di eventi dal vivo. Ma credo che a fronte del mare magnum dello streaming in cui si può disperdere la musica pubblicata, il concerto dal vivo rimanga il medium più immediato ed efficace per avere percezione del feed back del proprio impatto sul pubblico. Certo è faticoso e bisogna mettere in conto che nella stragrande maggioranza dei casi  difficilmente l’artista riesce a vedere un significativo ritorno economico. Ma tant’è.

E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?

Come avrai capito, la questione sfugge in gran parte al mio controllo. Ciononostante il mio intento rimane logicamente quello di andare incontro all’ascoltatore. Rimane il fatto che questo lavoro, come dicevo all’inizio, richiede un approccio lento, un reale interesse a dedicarci del tempo, caratteristiche non proprio in linea con le modalità d’ascolto in atto

in questi tempi. Forse, come ben diceva un critico, sarebbe stato più coerente pubblicarlo in versione vinile, ma trovo questo formato ancora un po’ elitario. 

E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto di Ettore Filippi, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?

Penso che l”adagietto” della 5^a di Mahler potrebbe andare bene…

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